Il coraggio di dire basta

In Italia siamo abituati a invocare il quadro europeo e mondiale per sostenere soluzioni politiche espressione di precisi interessi economici. Il cosiddetto establishment, per intenderci. Ci è stato lungamente spiegato, ad esempio, che il governo Monti era richiesto e voluto dall’Europa. Abbiamo poi scoperto che Monti piaceva al Ppe, ai conservatori europei, a quelli che sostengono la linea dell’austerità, e non certo a chi invece voleva dare una svolta alla politica europea nel senso del superamento dei paradigmi neoliberisti. Oggi non si deve ripetere lo stesso errore. Lo scontro in atto in Europa è di quelli duri e decisivi, e non sono ammesse ignavie o ambiguità. Certo, serve grande prudenza. Ma si deve partire dalla realtà.

La realtà in cui si colloca la crisi politica italiana è quella di un’Europa che deve scegliere tra l’accoppiata inscindibile liberismo-austerità, e il rilancio di politiche pubbliche interventiste. Queste sono le due opzioni in campo. Può piacere o meno, ma tertium non datur. Lo scontro tra neoliberisti sostenitori dell’austerità e sostenitori di politiche di sviluppo economico è poi in atto non solo in Europa, ma anche negli Stati Uniti, perché in definitiva è espressione delle tendenze profonde della grande crisi economica cominciata nel 2008. Ignorare questo quadro significa semplicemente baloccarsi con una realtà che non esiste, non saper ascoltare i segni dei tempi.

Per questo motivo soluzioni fantasiose, o comunque poco chiare, alla crisi politica in corso non sono la strada giusta da percorrere. Anzitutto perché l’idea che il Pd non possa fare un governo con la destra non attiene a un problema estetico o moralistico. Né, per definire la destra italiana, è sufficiente riferirsi a categorie astratte come populismo o antieuropeismo. L’Agenda Brunetta, come prima l’Agenda Tremonti, hanno sempre avuto e hanno oggi un preciso segno sociale, che è quello della difesa e della conservazione del privilegio, che sia quello delle varie caste professionali, degli evasori fiscali o delle grandi rendite immobiliari e finanziarie, e in generale dei settori più ricchi della società. La destra italiana è certamente in primo luogo corporativa e strenuamente schierata per la difesa dello status quo. E questo la rende nei fatti ostile a un sistema fiscale socialmente equo, e più in generale a una politica di redistribuzione della ricchezza.

Questa ostilità è irriducibile, perché è collocata in profondità nell’identità culturale e politica e nel radicamento sociale della destra. Insomma, il suo corporativismo è perfettamente compatibile col liberismo, almeno a parole, se non sempre nei fatti: nei fatti è un liberismo inflessibile sul mercato del lavoro e flessibilissimo, ad esempio, sulle liberalizzazioni. Ed è altrettanto compatibile con l’austerità, almeno nei fatti, se non nella propaganda, come dimostrano prima i tagli lineari di Tremonti e poi l’anticipo del pareggio di bilancio al 2013. All’interno del centrodestra non esiste neppure nessun equivalente di quello che era la sinistra dc durante la Prima Repubblica, i cui eredi infatti sono collocati nel campo del centrosinistra. La destra italiana è liberista in maniera viscerale, non sempre ideologica, ma sempre in quanto concreta espressione degli animal spirit dei ceti privilegiati che rappresenta. Ceti sociali che sono poi gli stessi che sarebbero chiamati a pagare i costi della crisi, se si volesse imprimere davvero un effettivo segno innovativo alle vicende italiane, il segno del cambiamento, come giustamente ha detto di voler fare Bersani dopo il fortissimo avvertimento arrivato con il successo del Movimento 5 Stelle, il quale (è bene non dimenticarlo) non è il primo partito italiano, ma alle elezioni è stato il primo partito tra gli operai, tra i disoccupati e tra i giovani.

Un altro elemento deve infatti essere attentamente considerato. La crisi politica italiana non è un fenomeno accidentale prodotto da qualche occasionale smottamento interno al ceto politico. L’Istat ha recentemente diffuso dati agghiaccianti, ad esempio, a proposito della disoccupazione giovanile intellettualmente qualificata. Ci sono in questo momento in Italia circa 300 mila laureati disoccupati totali, di cui più di due terzi hanno meno di 35 anni. A questi si aggiunge l’enorme massa di giovani laureati sottoccupati, impiegati in lavori precari. Tutti costoro, dopo aver dedicato una parte rilevante della loro vita a formarsi, non sono stati in alcun modo utilizzati dalla società. Un esercito immenso di giovani, dotati di discrete doti di comunicazione e di capacità di formare opinione e consenso, e tuttavia lontani, per ignoranza più che per rifiuto, da visioni del mondo organiche, e facilmente reclutabili da chiunque proponga un progetto politico caratterizzato in qualche modo dall’elemento della rabbia. Non sono l’unico settore sociale a vivere drammaticamente gli effetti della crisi. Ma sono in qualche modo emblematici delle necessità che la fase impone oggi a chi voglia essere realmente responsabile. In generale, la prudenza è infatti una virtù della massima importanza in politica, ma deve essere sempre esercitata in maniera prudente. Un eccesso di prudenza si traduce spesso nel suo opposto. Oggi una politica prudente e responsabile è solo e unicamente una politica che pretenda di cambiare radicalmente le cose.

Immaginare di poter percorrere la strada di tale cambiamento, necessario e urgente, con chi rappresenta gli interessi dello status quo significa rimuovere i termini reali della situazione, nazionale e internazionale, e rinchiudersi in una realtà virtuale. È un lusso, che la sinistra italiana non può permettersi, se vuole preservare la sua funzione storica. Se governerà con la destra, direttamente in qualche governo di unità nazionale, ma anche indirettamente, attraverso alchimie varie più o meno fantasiose, la sinistra si esporrà al rischio di mancare completamente ai suoi compiti in una fase come questa. Non si tratta certo di fare le lodi della testimonianza, si fa politica per governare. Ma bisogna mettere fine all’elogio della politica come gestione dell’esistente. Per quella davvero bastano i tecnici. La sinistra esiste per fare stare meglio chi sta peggio, ovvero per cambiare le cose. Per questo cerca di ottenere il governo. Se il governo diventa un fine in sé, la responsabilità si tramuta in irresponsabilità, e la prudenza in avventurismo.

L’Italia oggi ha davvero bisogno di un grande senso di responsabilità. Chi se ne voglia realmente fare carico deve anche caricarsi, in questi giorni, il coraggio di dire basta. Serve l’umiltà di saper mettere l’interesse collettivo al primo posto, e anche, dunque, essere pronti a una nuova, immediata sfida elettorale. Se si vuole “essere visitati da un sole che sorge”, per citare il Vangelo, si deve essere disposti a prendere la croce e a scalare le montagne. Di sicuro, non ci si può fermare a dormire nelle paludi.