Si dice che occorra sempre mettere l’interesse del paese prima dell’interesse di partito. Come se in questa lunga stagione di leadership carismatiche, narcisistiche e irresponsabili, piene soltanto di sé, avessero abbondato i dirigenti capaci di preoccuparsi del proprio partito, al di là del proprio destino individuale. Ma che interesse ha l’Italia a ritrovarsi con un Partito democratico sotto la soglia dell’irrilevanza? È nell’interesse del paese che siano Silvio Berlusconi e Gianroberto Casaleggio a contendersi da domani il governo della Repubblica? Quale idea di interesse nazionale può essere conciliabile con uno scenario in cui le istituzioni democratiche siano ostaggio di due contrapposti populismi?
In questo caso, ci pare che l’interesse del Partito democratico venga prima dell’interesse del paese, ma solo in senso cronologico: perché dopo la disintegrazione del Pd sarebbe arduo ipotizzare la rinascita economica e civile di un’Italia divisa tra grillini e berlusconiani. E che questo sarebbe l’esito di una nuova unità nazionale tra Pd e Pdl non è difficile da dimostrare, visti i precedenti. Quello che ancora andrebbe dimostrato è semmai quale sia l’utilità di una terapia che ha già dato simili frutti, senza peraltro offrirne di migliori sul fronte della concreta azione di governo: dallo scandalo sociale degli esodati con cui ha esordito al disastro diplomatico dei marò con cui ha ingloriosamente chiuso la sua esperienza.
Gli argomenti utilizzati nel novembre 2011 per indurre il centrosinistra ad accettare una maggioranza di unità nazionale con il Pdl ormai non sono più ricevibili. La situazione di oggi differisce infatti da quella di allora per un significativo, ancorché molto trascurato, dettaglio: ci sono state le elezioni. Elezioni in cui la maggioranza che ha sostenuto il governo Monti è passata dal 75 al 55 per cento: pochino, per parlare di unità nazionale. Nel frattempo, dal novembre 2011 a oggi, il Movimento 5 stelle è passato però dal 5 al 25 per cento: parecchio, per essere messi al bando come forza antisistema.
È possibile immaginare di ripetere in qualsiasi forma una maggioranza di unità nazionale tra i partiti che alle ultime elezioni hanno perso rispettivamente tre e sei milioni di voti, tenendo fuori proprio coloro che contestando il loro governo i voti li hanno quintuplicati? Perché si possa parlare ragionevolmente di unità nazionale occorre che almeno i tre principali partiti votati dagli elettori, che hanno raccolto quasi gli stessi consensi, ne riconoscano l’esigenza: un’alleanza tra due di essi contro il terzo non sarebbe una maggioranza di unità nazionale, ma semplicemente un’alleanza politica.
I risultati delle ultime elezioni, però, parlano chiaro. Silvio Berlusconi ha fatto appena in tempo a sfilarsi, per condurre una campagna elettorale da oppositore del governo Monti: tanto gli è bastato per ottenere un recupero prodigioso, dopo avere abbandonato Palazzo Chigi nell’ignominia, e l’Italia sull’orlo della bancarotta, appena un anno prima. Con simili premesse, tanto incoraggianti per il Pd da non consentire dubbi, allora, sulla sua imminente vittoria elettorale, la coalizione di centrosinistra ha toccato il suo minimo storico. Perché questo è quello che è successo: dopo il conclamato fallimento del governo Berlusconi, al termine del più lungo ciclo di governo della destra, otto anni su dieci dal 2001 al 2011, il centrosinistra ha raggiunto alle elezioni il suo minimo storico. Come è stato possibile?
Non c’è bisogno di chiamare Sherlock Holmes per scoprire la soluzione di un simile enigma. Evidentemente la risposta deve trovarsi nel lasso di tempo intercorso tra il crollo del governo Berlusconi e le successive elezioni. Ma che cosa ha fatto il Pd in quel momento decisivo, tra novembre 2011 e febbraio 2013, lo sappiamo già: lo stesso esperimento che in tanti oggi lo invitano a ripetere, con gli stessi argomenti di allora. Non può esserci dubbio, pertanto, su quale sarebbe l’esito di una simile scelta, comunque si tentasse di camuffarla.
Il Partito democratico ha già dimostrato il suo senso di responsabilità, tentando tutte le strade possibili per la formazione di un nuovo governo. L’unica formula che finora non ha voluto tentare è la riedizione di quella stessa “strana maggioranza” che ha sostenuto il governo Monti. Per due ragioni elementari: perché ha dimostrato di non funzionare e perché si tratta esattamente della formula che gli italiani hanno bocciato con il voto. Prima di tornare su quella strada, pertanto, non si vede come si possa evitare di tornare davanti agli elettori, chiedendo loro di giudicare sulle scelte compiute e sulle scelte da compiere in questa fase delicatissima.
Se il secondo partito del paese, il Movimento 5 stelle, non vuole appoggiare nessun governo, è giusto che siano gli italiani ad avere l’ultima parola. E a dire se per questo il non-partito di Beppe Grillo merita la maggioranza assoluta cui dice di aspirare o se deve piuttosto essere rapidamente allontanato dalla stanza dei bottoni e delle responsabilità, per manifesta incapacità di esercitarle.