Come verrà ricordato Giulio Andreotti nei libri di storia è difficile dire. Troppo grande è il divario tra il rilievo del suo ruolo nella storia d’Italia e le molte ombre che ne hanno accompagnato l’ascesa, ben prima che la magistratura osasse accusarlo esplicitamente. La difficoltà di dare un’interpretazione convincente e univoca della sua figura è dimostrata, in un certo senso, anche dalla chiave grottesca scelta da Paolo Sorrentino nel più famoso film a lui dedicato. Per decenni il personaggio politico più imitato, parodiato, caricaturizzato – anche e forse anzitutto da se stesso, con abile e modernissima prontezza – Giulio Andreotti sembra essere stato catturato per sempre dalla sua caricatura, quasi che non vi fosse più altro modo di raccontarlo, proprio lui che pure è stato al centro delle più drammatiche vicende della Reppubblica nell’arco di cinquant’anni. Quasi che egli stesso, con la sua ironia, con il suo tenace attaccamento a quel sermo humilis che non abbandonò mai, nemmeno nelle occasioni più solenni, fosse riuscito in tal modo a costruire un’invalicabile muraglia di difesa non solo del suo personaggio pubblico finché rimase in prima linea, ma persino della sua memoria dopo la sua uscita di scena (e vedremo quanto tempo occorrerà ora, dopo la sua morte, perché quella muraglia sia vittoriosamente valicata, ammesso che lo sarà mai).
Giulio Andreotti è stato identificato per decenni come l’uomo più potente della politica italiana, custode di tutti i suoi più oscuri misteri e dei suoi più inconfessabili segreti, come l’incarnazione stessa del potere, inteso anzitutto come conoscenza di ciò che all’uomo comune non è dato sapere. Un’immagine forse esagerata, alla cui costruzione, comunque, non è stato estraneo lo stesso Andreotti, che più volte l’ha anzi direttamente alimentata e utilizzata. Di certo un’immagine non infondata, se è vero che nessuno come lui, nel corso di mezzo secolo, nei vari governi di cui ha fatto parte – cioè quasi tutti – ha mantenuto costantemente un ruolo di primo piano nel rapporto con gli apparati militari e di sicurezza.
Il potere come segreto e come inganno, perfettamente incarnato da quell’uomo curvo e freddo, dall’apparenza tanto inoffensiva e mite. Il potere come manipolazione. E che cos’è l’ironia – e cos’è stata anzitutto la celebre ironia andreottiana – se non questo? Il significato letterale di un’espressione che dice in realtà il suo esatto opposto. Il potente che si fa umile non già per spogliarsi del proprio ruolo, ma per meglio esercitarlo, concedendo agli umili l’illusione di poterlo abbassare al proprio livello. Un carnevale che dura finché dura la recita del Bagaglino, fino al calare del sipario e al ritorno alla dura logica della politica: la grande politica, la politica mondiale, in quel mondo grande e terribile dominato dalle due superpotenze di cui nessuno più di Andreotti è stato conoscitore e protagonista.
In questa ambivalenza andreottiana, iscritta persino nel suo fisico, così lontano dalla classica iconografia del potere, sta forse un elemento profondo della concezione italiana della politica. Una concezione diffusa tanto tra le classi dirigenti quanto tra i ceti popolari: la politica come potere nascosto, manipolatore, intrinsecamente ironico. E forse un segnale della crisi che in questi anni attraversa la politica italiana sta proprio nella scomparsa dal suo terreno, ben prima di Andreotti, dell’ironia.
Certo è degno di nota che a cancellare ogni traccia di ironia dal dibattito pubblico sia stata proprio l’ascesa politica di un comico, che alla discussione razionale, con le sue sottigliezze e le sue contraddizioni, ha sostituito l’insulto, l’insinuazione e l’invettiva. Un grido roco che non permette il sorriso, ma solo l’irrisione. Il mito di una democrazia diretta che è innanzi tutto rifiuto di ogni mediazione ironica, e cioè della possibilità di ammettere al tempo stesso due verità opposte e complementari, di sopportarne la contraddizione e il conflitto. Naturalmente l’ironia può essere anche manipolazione e inganno, doppiezza e dissimulazione. Ma il suo rifiuto in nome del mito orwelliano della trasparenza totale – anche quando si nasconda dietro il precetto evangelico del “sì-sì, no-no” – è sempre stato il primo passo dell’intolleranza, la bandiera di tutti i fanatismi, la via più breve verso la barbarie.