Il risultato delle elezioni amministrative mostra che la crisi del centrodestra berlusconiano è irreversibile, che il Partito democratico è ancora in piedi e che il Movimento 5 Stelle non ha superato la sua prima prova in parlamento. Per la sinistra, però, le buone notizie finiscono qui.
Queste elezioni amministrative e anche il referendum bolognese sulla scuola paritaria, con la loro bassissima affluenza, andrebbero paragonati ad amministrative e referendum dell’estate 2011. La frustrazione e il risentimento di questi giorni messi a confronto con la partecipazione e l’entusiasmo di allora. L’entusiasmo di una sinistra che in difesa dell’acqua pubblica riuniva parrocchie e centri sociali, mostrava il coraggio di sfidare poteri consolidati e in questa sfida ritrovava il suo popolo, la sua missione e la sua identità.
È bastato poco a cambiare quel clima. Poche settimane, il ritorno in grande stile delle campagne contro la “casta” e i costi della politica su tutti i mezzi di informazione, e in un attimo siamo passati dalla battaglia per il controllo pubblico sui beni comuni alla demonizzazione del pubblico in ogni sua forma, dalla lotta contro la privatizzazione dei diritti sociali alle campagne per la rimozione di qualsiasi presenza dello stato nell’economia, dal rifiuto di sottomettere ogni ambito della vita collettiva alla logica del mercato al tentativo di applicarla persino alle istituzioni della democrazia rappresentativa. In breve, siamo passati da una politica che si opponeva alle privatizzazioni alla privatizzazione della politica.
Dalle sconfitte di Milano e Napoli, prima ancora che dall’enorme partecipazione ai referendum su acqua pubblica, nucleare e legittimo impedimento, è cominciata la crisi del centrodestra. Dall’autunno seguente, con la nascita del governo Monti, è cominciata di fatto la crisi del centrosinistra. Tutti gli errori compiuti nella lunghissima fase postelettorale e nell’elezione del capo dello stato non hanno fatto che esasperare una situazione già compromessa, come il voto di febbraio aveva già chiarito oltre ogni ragionevole dubbio, portando il centrosinistra al suo minimo storico.
Eppure, all’indomani di un voto in cui la maggioranza del governo tecnico ha perso dieci milioni di voti e Beppe Grillo è arrivato da zero al 25 per cento, si è dato vita a un governo che non solo è sostenuto dalla stessa maggioranza, ma che nella compagine ministeriale è formato quasi esclusivamente da quegli esponenti di Pd e Pdl che con più convinzione, nei mesi precedenti, si erano schierati a sostegno di Monti (siccome però dall’esperienza qualcosa si impara sempre, o forse semplicemente per selezione naturale, non da Monti).
La formazione del governo Letta è stata in parte una scelta obbligata, vista l’autoesclusione del Movimento 5 Stelle da qualsiasi maggioranza (una scelta che evidentemente ha già cominciato a pagare). L’alta astensione sottolinea però l’estrema debolezza dell’intera impalcatura politica che dovrebbe sostenerlo. Il governo Monti, almeno nei primissimi mesi, godette di ben altra luna di miele. A spese del centrosinistra, come poi si sarebbe visto, ma comunque una signora luna di miele. Il clima di oggi non è nemmeno da primo appuntamento.
La fine del bluff sul grande ritorno in scena del Pdl riduce però di molto il potere di ricatto del Cavaliere: sia perché in caso di voto anticipato nulla autorizza a credere che le cose gli andrebbero molto meglio di come gli sono andate alle amministrative, sia perché la crisi verticale dei Cinquestelle apre possibilità inedite in parlamento, qualora il Pdl facesse venire meno il sostegno al governo Letta. Non solo perché molti parlamentari grillini, in caso di voto anticipato, con questi numeri avrebbero la certezza matematica di non essere rieletti, ma anche e forse soprattutto perché il verdetto delle urne, dopo la folle scelta dell’autoisolamento imposta da Grillo, legittimerebbe ampiamente, anche agli occhi del loro elettorato, una svolta nella strategia parlamentare seguita sin qui.
Il Partito democratico ha dunque qualche carta ancora da giocare. Ma con un’affluenza al 62 per cento, che a Roma arriva al 54, le vittorie nelle città non autorizzano certo il trionfalismo. Dinanzi a quasi metà del paese che non va a votare, sostenere che gli elettori abbiano voluto premiare il governo Letta, le larghe intese o il Partito democratico sarebbe quanto meno azzardato. Non è un risultato di cui il Pd possa dirsi soddisfatto, non foss’altro perché è sostanzialmente equivalente al risultato delle ultime politiche. E non è un problema che si possa risolvere cambiando la legge elettorale. Con il 25 per cento dei voti e un sistema maggioritario si può, forse, governare una città. Ma per governare un paese avendo contro il 75 per cento degli elettori non servono premi di maggioranza, servono i carri armati. E comunque il caso della Napoli di Luigi de Magistris, uno dei più clamorosi trionfatori delle elezioni del 2011, dimostra che anche per le città il gioco funziona fino a un certo punto: quando il bonus maggioritario è sproporzionato rispetto al consenso reale del suo beneficiario, prima o poi, la realtà finisce sempre per presentare il conto.