Dopo vent’anni di berlusconismo, seguiti dalla trionfale discesa in campo di Beppe Grillo, nel Partito democratico sembra farsi strada l’idea di cambiare la Costituzione per eleggere direttamente il capo dello stato. Si tratterebbe di abbandonare definitivamente il regime parlamentare, già deformato in ogni modo in questi venti anni di bipolarismo di coalizione e “presidenzialismo di fatto”, per passare a un regime semipresidenziale sul modello francese. Una scelta che con ogni evidenza non sarebbe né una revisione né una modifica della Costituzione. Sarebbe semplicemente un’altra Costituzione.
Il modello francese – semipresidenzialismo e legge elettorale a doppio turno – era peraltro la proposta cui era giunta quindici anni fa, in modo invero piuttosto rocambolesco, la famigerata bicamerale presieduta da Massimo D’Alema. Ma in un contesto profondamente diverso. Silvio Berlusconi era riuscito a governare per meno di un anno, la sua coalizione con la Lega era andata clamorosamente in pezzi, il centrosinistra aveva appena vinto le elezioni mettendo al primo punto del suo programma proprio l’impegno a riformare la Costituzione in accordo con l’opposizione.
Allora, a pochi anni dal crollo della Prima Repubblica, nessuno poteva ragionevolmente mettere in discussione la loro legittimazione non solo a governare, ma anche a ridisegnare i confini di un sistema politico che i referendum istituzionali e l’impatto violento delle inchieste di Mani Pulite nel 92-93, di fatto, avevano già profondamente alterato. La successiva discesa in campo di Silvio Berlusconi e la sua vittoria elettorale nel 1994, ancorché di breve respiro, avevano poi ampiamente dimostrato quanto il sistema ibrido che ne era emerso fosse permeabile a offensive populiste e a scalate ostili da parte del potere economico e mediatico.
Comunque la si pensi sul modello francese, e noi pensiamo che per l’Italia sarebbe un pessimo sistema, non si può non riconoscere che in quel contesto aveva un senso l’argomento principale dei sostenitori della riforma, secondo i quali occorreva anzitutto ricondurre all’interno di un nuovo impianto costituzionale una prassi che dall’introduzione del maggioritario in poi era andata ben oltre i confini della Carta del ’48. Ma quello che quindici anni fa, all’alba della Seconda Repubblica, poteva essere il ragionevole tentativo di sanare uno stato di fatto che minacciava altrimenti di produrre guasti peggiori, oggi che quei guasti hanno già prodotto il “presidenzialismo di fatto” berlusconiano, l’emarginazione del parlamento, l’alterazione di ogni equilibrio istituzionale, l’assalto continuo al principio stesso della divisione dei poteri e alla terzietà di ogni istituzione di garanzia, sostenere ancora che occorra sanare tutto questo con il semipresidenzialismo significa andare molto al di là dell’accanimento terapeutico. Tanto più che vent’anni di “presidenzialismo di fatto” e bipolarismo di coalizione hanno già prodotto un sistema talmente stabile e governabile che nel novembre del 2011, per sostituire un presidente del Consiglio senza una reale maggioranza politica da almeno un anno, c’è voluto che l’Italia sfiorasse la bancarotta.
Il frutto di quella governabilità è l’Italia di oggi. Il conto di quella stabilità lo stiamo ancora pagando: prima con la cura Monti, che ha esasperato gli italiani e prodotto l’esplosione del grillismo, ora con un nuovo governo di larghe intese. A questo punto, introdurre il semipresidenzialismo in Costituzione sarebbe come pretendere di curare l’alcolismo con l’eroina.
Particolare non secondario, i protagonisti della bicamerale, centrodestra e centrosinistra, raccoglievano allora circa l’80 per cento dei consensi. I protagonisti di oggi, Pd e Pdl, meno del 50. In questo momento, la legittimazione di entrambi è al minimo storico, come i rispettivi risultati elettorali. Del resto è evidente a tutti che dopo il voto di febbraio non siamo certo all’alba di una nuova Italia, ma al mesto tramonto del vecchio regime. Che i gruppi dirigenti più logori e sfiduciati di questo ventennio, a destra e a sinistra, possano pensare di riscrivere insieme la Costituzione è pertanto un’assurdità politica, che rasenta l’irresponsabilità. E un’irresponsabilità che sconfina nell’autolesionismo. Una simile scelta apparirebbe infatti a chiunque, più che come un atto di rifondazione delle istituzioni, come un disperato tentativo di sostenersi a vicenda, costi quel che costi, da parte di generali senza più truppe. Non un generoso sforzo di ricostruzione, quale certamente è nelle loro intenzioni, ma un maldestro tentativo di avvelenare i pozzi, che finirebbe per dare all’Italia di oggi, al suo tessuto democratico già sfibrato da vent’anni di berlusconismo, non già un regime semipresidenziale alla francese, ma un regime semipopulista alla sudamericana. Un modello che fortunatamente oggi è stato superato anche in gran parte del Sud America.