Da che parte stiamo

Dieci anni dopo il suo esordio sul web, Left Wing raddoppia, diventando (anche) di carta. Questo editoriale aprirà il primo numero del bimestrale che sarà in libreria dai primi di luglio. Le ragioni di questa scelta le trovate qui (e qui trovate l’indice completo del primo numero).

Il risultato delle elezioni di febbraio ha spiazzato tutti: politici e commentatori, partiti e istituti demoscopici. Gli italiani hanno espresso con il voto un misto di rabbia e sfiducia, frustrazione e risentimento. Un malessere che da tempo e per mille vie si era manifestato nel paese e che tuttavia noi per primi, a sinistra, abbiamo enormemente sottovalutato.

Questo è stato il nostro errore principale. Quello che è all’origine di tutti gli altri. Un errore di analisi, si potrebbe dire, se questa definizione non rischiasse di apparire riduttiva. Quando lo scollamento tra la percezione dei gruppi dirigenti e la realtà è così ampio, evidentemente, non è solo questionedi analisi. È anche questione di empatia. Vuol dire che si è rotto qualcosa nel rapporto con la società. Una ferita che non si può considerare rimarginata neppure dopo la vittoria del centrosinistra alle amministrative, di cui va dato merito ai candidati e ai militanti che si sono buttati nella campagna elettorale in uno dei momenti più difficili della storia del Pd (e forse anche al Pd in quanto tale, capace di reggere e vincere persino in momenti come questi, nonostante tutto). Ma c’è poco da fare: se metà dell’elettorato non va a votare significa che a quella rabbia diffusa non è stata data risposta. E allora è da qui che bisogna ricominciare.

Da qui deve ricominciare anche chi, all’interno del Partito democratico, aveva visto per tempo il montare di quella rabbia, chiedendo ripetutamente di non prolungare l’esperienza del governo Monti e della sua “strana maggioranza” oltre i primissimi mesi dell’emergenza finanziaria. Da qui deve ricominciare anche chi, come Sel e tutte le forze a sinistra del Pd, quell’esperienza aveva contestato sin dall’inizio.

In tanti avevamo denunciato il rischio di una chiusura oligarchica e autoreferenziale della politica: era facile prevedere che una sospensione della naturale dialettica destra-sinistra, nel pieno della crisi, non avrebbe fatto altro che alimentare qualunquismo e disperazione. Nessuno di noi, però, aveva previsto l’estensione e la profondità della rivolta.

La maggioranza che ha sostenuto il governo Monti ha perso nelle urne dieci milioni di voti. Nel frattempo, il Movimento 5 Stelle passava dal 5 per cento — il livello più alto cui veniva stimato nell’autunno 2011, quando il governo Monti entrava in carica — al 25 per cento del febbraio 2013. Il Pd ha perso otto punti percentuali rispetto al 2008, ma nessuna delle formazioni alla sua sinistra è andata meglio: non gli alleati di Sel, tanto meno la sinistra antagonista guidata da Antonio Ingroia. Il centrosinistra è arrivato al 29 per cento, raccogliendo dieci milioni di voti: il suo minimo storico. Per avere un termine di paragone, i Progressisti di Achille Occhetto, nel 1994, presero due milioni di voti in più, arrivando almeno al 32.

Quello che più conta è però la dimensione qualitativa della sconfitta. Non per niente, già duramente segnato dall’esito elettorale, il Pd è letteralmente imploso nelle settimane successive al voto, quando si è trattato di eleggere il presidente della Repubblica.

Nelle ore più drammatiche della crisi del Pd, per giustificare l’accaduto, sono riecheggiate parole antiche: tradimento, congiura, complotto. Si è invocato il ritorno di un principio d’ordine. Si sono immaginate soluzioni organizzative sempre più raffinate per risolvere contraddizioni politiche sempre più profonde. Evitando però accuratamente di andare al cuore del problema, alla ragione profonda del fallimento.

Non è un caso se in pochi anni milioni di voti sono scomparsi: nel cuore della tempesta che aveva visto mescolarsi crisi economica e crisi democratica, il Pd non è stato percepito come argine sufficiente né all’una né all’altra. Incatenato a una retorica del rigore sempre più insostenibile, si è presentato agli elettori come il “partito della responsabilità”. E così, nelle urne, ha finito per prendersi anche responsabilità che non erano sue, per timore di mettere troppo radicalmente in discussione le parole d’ordine pur evidentemente fallimentari di questi vent’anni di egemonia liberista. O magari per paura di non sapere poi, al dunque, con cosa sostituirle.

Di qui la ricerca ossessiva di un rapporto con i diversi establishment del paese e con i loro sempre nuovi campioni politici. Un rapporto subalterno, da parenti poveri sempre con gli occhi bassi e il cappello in mano, che rendeva assai difficile alzare lo sguardo verso i nuovi esclusi che la crisi stava accumulando oltre i confini del circuito della comunicazione e purtroppo anche della rappresentanza politica. Il balletto inscenato durante la campagna elettorale intorno al rapporto con Mario Monti è stato l’emblema di questa subalternità. E l’abbiamo pagato assai più caro dei balletti attorno al “giaguaro da smacchiare”.

L’idea stessa che il rito delle primarie potesse essere la cura di tutti i mali è la dimostrazione di un drammatico errore di prospettiva: non abbiamo visto che il problema non stava nel rapporto con quella fascia di elettorato attivo, sempre pronta a rispondere a una domanda di partecipazione. Non abbiamo visto che si era rotto qualcosa altrove. In un altrove sociale — e spesso anche geografico, come in tante parti del Mezzogiorno — dove il richiamo della partecipazione non arrivava più. Perché a spezzarsi era stato il rapporto tra politica e lavoro, tra lavoro e cittadinanza. Milioni di persone disoccupate o sottoccupate, comunque escluse da un processo di integrazione sociale e realizzazione personale attraverso il lavoro, si autoescludevano anche dalla cittadinanza politica. Oppure, nella migliore delle ipotesi, si rifugiavano nella protesta populista.

Così le primarie e il loro indubbio successo si sono trasformati in uno specchio deformante, che rimandava un’immagine consolatoria. Assurte a mito fondativo, ci hanno spinto a concentrare l’attenzione sul consenso di una cerchia, per quanto larga, pur sempre limitata di elettori, facendoci scambiare toni e argomenti di una minoranza — una minoranza forse persino sovra-mobilitata e sovra-eccitata — per parole d’ordine che avrebbero potuto parlare all’intero paese.

Non è un caso che ad abbandonare il Pd e a gonfiare le vele del populismo sia stato il voto dei giovani e dei ceti popolari.

Per ricominciare occorre dunque ripartire da qui, dal riconoscimento di un fallimento. Non è questione di forma organizzativa, come sembrano suggerire alcuni. C’è naturalmente anche questo aspetto, ma prima della forma viene la sostanza, e la sostanza di un partito è la sua capacità di portare avanti un progetto di cambiamento nella società.

Non sono tessere, circoli e federazioni a fare la differenza. Il partito solido di Pier Luigi Bersani si è dimostrato evanescente quanto il partito liquido di Walter Veltroni. Perché di quell’impianto ha ereditato, più per inerzia che per convinzione, la matrice culturale, ovvero l’idea secondo cui compito di un partito è parlare alla società come a un tutto indistinto. Come se non vi fossero interessi contrapposti, contraddizioni e conflitti sociali, ideali, politici. Come se vi fossero solo modi diversi di raggiungere lo stesso comune obiettivo.

È la tragedia di questi anni: la rappresentanza dei diversi settori della società risolta con la candidatura di figurine, destinate inevitabilmente a produrre figuracce.

Proprio questa negazione delle differenze, questa rimozione del conflitto, ha svuotato di senso i partiti e li ha trasformati, nella migliore delle ipotesi, in ancelle del governo, in una struttura servente dell’amministrazione. Come nel documento elaborato da Fabrizio Barca, in cui sembra intravedersi quasi una deformazione professionale da dirigente dell’amministrazione pubblica, che giustamente sogna di potersi confrontare, nel suo lavoro di ogni giorno, con partiti capaci di aiutarlo concretamente sul cammino delle riforme. Aspirazione nobilissima, ma anche un po’ riduttiva, che corrisponde del resto a una lettura tipica di questi venti anni, in cui la riflessione sul partito è stata appannaggio quasi esclusivo dei politologi. Come stupirsi, poi, se questo è il risultato? Come diceva Senofane di Colofone, se i cavalli e i buoi sapessero disegnare, i cavalli disegnerebbero gli dei simili ai cavalli e i buoi simili ai buoi.

Per uscire dalla politologia e tornare alla politica noi crediamo che il Pd debba recuperare anzitutto consapevolezza del suo essere “parte”: un partito si costruisce con qualcuno, ma anche contro qualcosa. Non si tratta di una scelta minoritaria e di testimonianza. L’Italia ai tempi della crisi è un paese in cui il grido degli esclusi è ormai la voce della maggioranza: occupati, sottoccupati e disoccupati, giovani professionisti tenuti ai margini dalle rispettive corporazioni e imprenditori esclusi dal circuito del credito riservato ai “debitori di riferimento” delle grandi banche. A essere tagliata fuori dalla piccola cerchia in cui si prendono le decisioni, le si discute e le si commenta, ammirandosi nello specchio dei propri giornali e delle proprie tv, è una maggioranza sempre più larga. Due Italie tra le quali la crisi ha costruito un muro invalicabile.

In fondo, la deriva oligarchica della società italiana è solo l’altra faccia dell’economia dell’austerità. Dunque la stessa è la via d’uscita: o l’Italia riesce a invertire la ventennale tendenza al restringimento delle sue basi produttive, a riattivare il ciclo dei consumi e dello sviluppo, o non ci sarà spending review né stretta di bilancio che basti, e alla fine anche quel piccolo circolo di famiglie insediate al vertice delle banche e dell’informazione si ritroverà a nuotare nei soldi del Monopoli.

Spezzare il blocco oligarchico è l’unica strada possibile per uscire dalla spirale tecnocrazia-recessione-populismo, un meccanismo micidiale che sta stritolando i paesi più fragili dell’Europa. È molto semplice, funziona così: i tecnocrati dell’austerity aggravano la recessione, la recessione gonfia le vele dei populisti che producono ingovernabilità, l’ingovernabilità costringe a richiamare in servizio i tecnocrati e il ciclo ricomincia. Un triangolo delle Bermude in cui la sinistra rischia di scomparire sin dal secondo giro.

Di fronte a questo rischio nessuno può permettersi il lusso di giocare al tanto peggio, anche perché potrebbe essere accontentato prima e più di quanto osasse immaginare.

Occorre riannodare partecipazione e rappresentanza. Non si tratta di sforzarsi di vedere il mondo con gli occhi degli ultimi, ma di offrire anche agli ultimi un canale effettivo di partecipazione, perché possano riscattarsi da sé, farsi essi stessi classe dirigente.

Alla fine dei conti, insomma, le strade sono due: o rassegnarsi a trasformare i leader politici in icone pop, o riportare il popolo nei partiti. O rendere i leader capaci di esibirsi degnamente sul palcoscenico della società dello spettacolo, l’unico ancora capace di raccogliere un pubblico sufficientemente ampio, o rendere i partiti degni del popolo, del suo tempo e della sua attenzione.

Noi pensiamo che la strada della sinistra non sia quella di adattarsi alla democrazia dei telespettatori, magari credendo di ingentilirla con qualche appello ai buoni sentimenti tra un blocco pubblicitario e l’altro. Tanto meno ci convince la variante telematica, con la sua finzione partecipativa, dove gli interventi in dissenso vengono espulsi come troll e infiltrati, perché l’unico commento ammesso è l’elogio del capo. Almeno nel Grande Fratello il risultato del televoto viene rispettato.

Ricostruire la democrazia dei partiti, che significa anzitutto ricostruire partiti democratici, è la sola strada per uscire davvero dalla crisi. Ma questo, nell’Italia di oggi, significa andare controvento. Significa prepararsi a una battaglia lunga e non facile. Perché questo compito era anche il mandato su cui Pier Luigi Bersani aveva stravinto congresso e primarie del 2009, ormai quattro anni fa. Ed è evidente, pertanto, che coloro che lo hanno sostenuto, e tanto più chi lo ha fatto da posizioni di responsabilità, prima di tutto deve chiedersi dove ha sbagliato. Ma anche resistere, crediamo, alla facile scorciatoia di chi si unisce per ultimo all’antico grido facilone secondo cui “l’è tutto sbagliato, tutto da rifare”.

La nostra posizione è che non era tutto sbagliato, che per mettere le cose a posto non basta rovesciare il segno di tutto quello che abbiamo detto fino a ieri. Le scorciatoie sono finite. L’unico modo per cambiare davvero l’Italia è farlo insieme agli italiani, attraverso un partito capace di riunire i tanti che oggi pagano il prezzo insopportabile della chiusura oligarchica della società, prima ancora che della politica, e che questo stato di cose intendono rovesciarlo subito.

Anche il Pd è rimasto ostaggio della propria piccola oligarchia, del proprio “patto di sindacato” interno, incapace di scegliere dove collocare se stesso, in che direzione tentare di ricomporre le nuove fratture che la crisi apriva nella società. Occorreva scegliere, ma la faticosa ricerca di una sempre precaria unità interna, peraltro più apparente che reale, lo ha reso di fatto impossibile. Così come ha reso impossibile la costruzione di un partito degno di questo nome.

Si tratta ora di scegliere, nei partiti come nella società. E la scelta non è più rinviabile: la disperata difesa delle mille piccole e grandi rendite o l’apertura di una nuova, coraggiosa battaglia per lo sviluppo e per la partecipazione, rifiutando la trappola dell’austerità e il ricatto del commissariamento tecnocratico, per rialzare finalmente la testa, in Italia e in Europa.

Anche solo per potere enunciare un simile obiettivo serve un largo campo di forze, un amplissimo tessuto di alleanze politiche e sociali. Servono una strategia e degli interlocutori internazionali. Ma serve prima di tutto, crediamo, quello che è mancato fino a oggi: la forza della chiarezza. Per decenni il ritornello dell’alleanza tra capitale e lavoro, in Italia, ha significato di fatto che la sinistra portava le forze del lavoro al servizio del capitale, e spesso di un capitale improduttivo e parassitario, più preoccupato del controllo che dello sviluppo delle imprese. Al servizio cioè di quelli che il paese lo tenevano fermo, a dispetto di tanta retorica liberista buona per i loro giornali.

Noi pensiamo che serva l’esatto contrario. L’esperienza di questi venti anni dimostra che l’unica strada per combattere davvero le incrostazioni corporative che bloccano il paese è quella che tiene insieme lotta per la diseguaglianza e lotta contro le oligarchie. Non più, dunque, spingere perché il mondo del lavoro abbandoni la battaglia per l’eguaglianza. Battersi, invece, perché anche il mondo delle professioni e dell’impresa — della piccola e media impresa esclusa dal circuito della finanza che controlla il credito e l’informazione — la abbracci.

Se ricominciamo dalla fabbrica, pertanto, non è per tornare a una visione classista della società o per inventarci un nuovo operaismo. Non è perché vogliamo tornare al passato o perderci nelle nebbie ideologiche di un secolo fa. Se ripartiamo dalla fabbrica è perché crediamo che piantare i piedi per aria sia il modo più sicuro per restare immobili, come dimostra la storia di questi anni. Anni durante i quali l’unica volta in cui nel Partito democratico si è tornati a pronunciare la parola “fabbrica” è stato per tessere l’elogio del Piano fabbrica Italia di Sergio Marchionne, come hanno fatto tanti autorevoli dirigenti.

Dunque ripartiamo da qui, perché solo da qui la sinistra può riconquistare il suo ruolo nel mondo di oggi. Un mondo in cui il lavoro e le sue condizioni materiali continuano a rivestire un’importanza centrale per la vita di milioni di persone.