Chi comanda nel nostro paese? Chi decide, chi sceglie, chi esercita davvero il potere? Concorrere alla ridefinizione di rapporti di forza tra chi vuole conservare posizioni dominanti e chi vuole accedervi dovrebbe essere diritto non solo di ogni cittadino, ma anche di ogni ceto sociale, area geografica, interesse collettivo. In democrazia il potere dovrebbe essere contendibile, e cioè accessibile a tutti gli attori sociali: l’alternativa sarebbe una comunità nella quale via sia una sola scelta e una sola classe dirigente, una classe che si autoconserva e rigenera se stessa per ereditarietà o cooptazione.
L’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti è il modo in cui l’élite che governa il nostro paese tenta di tutelare se stessa e conservare la propria posizione dominante. A sinistra, per fortuna, c’è ancora qualcuno che sostiene che il finanziamento pubblico ai partiti serve a far sì che il figlio di un operaio possa fare politica e far sentire la sua voce pur non essendo ricco di famiglia, oltre che a garantire la sopravvivenza di partiti popolari e non padronali. Ma per larga parte dell’opinione pubblica il finanziamento ai partiti servirebbe solo ad alimentare la corruzione e la sussistenza di un ceto politico autoreferenziale. Una convinzione che si è diffusa non solo a causa degli scandali, ma anche per l’utilizzo improprio dello strumento del finanziamento pubblico, mirato essenzialmente alla difesa di una storia e di una struttura necessaria a se stessa, ma non avvertita come tale dal corpo largo del paese, perché assente dai luoghi del conflitto e della marginalità (sociale, geografica, economica).
Il contributo pubblico ai partiti dovrebbe servire a garantire a tutti i cittadini la possibilità di competere per il potere, a organizzare cioè in maniera libera e democratica la rappresentanza dei diversi legittimi interessi. E nasce per far sì che i partiti, come stabilito dall’articolo 49 della Costituzione, siano strumento di mobilità sociale non della classe dirigente, ma delle classi dirigenti, in modo tale che tutti i gruppi sociali possano concorrere a determinare la politica nazionale.
Il tema non è quindi l’esistenza del Pd, che a differenza di acqua e aria non è elemento indispensabile in natura, ma l’esistenza di un sistema che assicuri questa possibilità di organizzazione e questa possibilità di competizione. Le élite di destra e di sinistra del nostro paese, in perfetta sintonia col populismo plebiscitario di Beppe Grillo, sostenute da un sistema dei media che risponde in maniera diretta alle grandi famiglie del capitalismo italiano, sembrano perseguire l’obiettivo di ridurre al minimo la funzione dei corpi intermedi. D’altronde se la lotta per il potere si riduce a una contesa tra comitati elettorali sostenuti dall’una o dall’altra lobby, è difficile parlare di democrazia in senso compiuto: di fatto si tratta di una competizione interna alla stessa élite.
E’ la legge della cooptazione gattopardesca e della cristallizzazione ereditaria del consenso: i gruppi dirigenti del Pdl e anche del Pd provengono, per la maggior parte, dalla stessa estrazione sociale e dalle stesse aree geografiche. Che poi sono anche quelle da cui provengono Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, le cui leadership di certo non potranno mai essere messe in discussione dalla teoria del doppio mandato a cinque stelle, che assicura a molti i famosi quindici minuti di celebrità warholiana, senza però dare loro la possibilità di incidere sul serio. La possibilità di diventare, cioè, classi dirigenti.
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Michele Grimaldi è coordinatore della segreteria nazionale dei Giovani democratici