Cara Left Wing,
la storia che voglio raccontarti oggi parla di porte, e di come si aprono in Cina. C’è una figura professionale che mi ha affascinato fin dal primo giorno qui a Shanghai: l’apritore di porte. Sono tanti i negozi che ne dispongono: niente porte scorrevoli che si aprono al posarsi del piede su un sensore, bensì un uomo che ti guarda arrivare e un decimo di secondo prima che tu possa allungare la mano per spingere ed entrare oplà, ti anticipa, apre verso l’interno e ti sorride (non sempre) facendoti passare.
Tutti i negozi di un certo livello hanno l’apritore di porte, taluni – quelli dei marchi di maggior lusso – ne hanno due e io non farei altro che entrare e uscire per vederli muoversi con la sincronia dei tuffatori o dei ballerini di Broadway: perché naturalmente non si limitano ad aprire la porta quando entri, lo fanno anche quando esci, accompagnandoti con la loro maggior grazia possibile.
Il fatto però è che l’usanza non riguarda solo posti dove del vezzeggiamento del cliente si deve fare un culto vista la quantità di denaro che quello viene a darti: alberghi tre stelle, centri uffici, Pizza Hut. Oggi un collega dava come giustificazione un complicato meccanismo di numero minimo di dipendenti in proporzione alle dimensioni dell’azienda, ma quando gli ho fatto presente che quell’omino potevano metterlo a servire ai tavoli (sì, erano le quattro del pomeriggio, non avevamo pranzato, siamo andati da Pizza Hut, spero che basti per farti smettere di scuotere la testa in segno di dissenso), invece che ad aprire porte, non ha saputo replicare. Non che io abbia una spiegazione valida, si capisce.
Mi piace pensare che sia una delle infinite declinazioni del prodigioso talento che hanno i cinesi per trovare una soluzione a tutto: non c’è niente che non si possa risolvere, magari accettando un grado di approssimazione che fa girare la testa persino a noi italiani, ma tutto si può fare, e tutto si fa per far filare le cose nella direzione desiderata; e se per farti entrare nelle mie quattro mura c’è bisogno di qualcuno che ti faccia strada come se tu fossi Mosè che attraversa il Mar Rosso, io pagherò qualcuno per aprirti la porta e sorriderti, in attesa che tu mi ordini una pizza e una Tsing Dao.
Ora, a proposito di aprire porte, ci sono anche delle versioni figurate di quest’attività, non per questo però meno diffuse: la regola aurea vuole che tu, se devi eseguire una qualsiasi azione che richieda un’autorizzazione, un permesso, un qualsiasi rapporto con una qualsiasi forma di autorità più o meno costituita – la polizia, l’ufficio visti, la municipalità, l’ente fieristico: chiunque, insomma, possa mettere un timbro su un pezzo di carta – sia equipaggiato con una certa quantità di contante: tre giorni fa un collega ha ricevuto una mail da un suo fornitore, il quale gli dava, nero su bianco, precise istruzioni su quanto portare in occasione di un certo evento sul quale non posso ovviamente darti maggiori particolari, in quante buste dividere la cifra, quanto mettere busta per busta. La motivazione era esemplare nella sua nettezza e semplicità: “For last minute under-table discussions with local authorities”. Dove quella parola, discussioni, sembra un eufemismo ma non lo è, il che rende il tutto ancora più bizantino – o cinese, in effetti.
Cosa dici, cara Left Wing? Che a questa forma di “discussioni” noi italiani siamo ben abituati? Certo, lo so anch’io. Ma mi hanno insegnato a riconoscere quelli più bravi, e a dargliene atto: ed è questa la storia che ti sto raccontando; io ci penserò quando tornerò a Milano e passerò dalle parti di via Paolo Sarpi. E tu? A Roma c’è una Chinatown?
No. In compenso ci sono moltissimi apritori di porte. Sfortunatamente, in tempi di crisi, a calare è solo il numero delle porte.