La cultura si mangia! L’affermazione – perentoria quanto quella contraria dell’ex ministro Giulio Tremonti, secondo cui con la cultura non si mangia – è il titolo del volume di Pietro Greco e Bruno Arpaia pubblicato da Guanda. Il saggio è un contributo importante al dibattito italiano su cultura e creatività. Un dibattito in cui paradossalmente convivono l’idea che con la cultura non si mangia e la retorica del Paese depositario della maggior parte del patrimonio artistico mondiale. Il risultato è l’assenza di politiche attive e di investimenti per lo sviluppo della società della conoscenza, ripetuti tagli alla spesa per la cultura, la ricerca e l’istruzione.
Il libro ci richiama alla consapevolezza di essere sì un Paese dotato di un immenso patrimonio artistico, protagonista in alcune fasi storiche della vita culturale occidentale, ma allo stesso tempo di non essere il centro della civiltà né il museo del mondo. Prenderne atto oggi ci può e aiutare ad avere cura di ciò che possediamo e a voler essere un Paese capace di produrre cultura per il nostro tempo. Per Greco e Arpaia la cultura può essere il veicolo principale della riconversione post-industriale di aree importanti d’Europa. A questo proposito gli autori citano i noti casi di Bilbao, del distretto industriale della Ruhr e molti dati interessanti, noti e meno noti. All’elenco, a mio parere, manca ingiustamente Torino, caso che andrebbe analizzato con maggiore attenzione.
Questa parte del saggio, tuttavia, è la più caduca e retorica del libro, con una visione eccessivamente entusiastica di interventi in cui domina il recupero urbanistico e il segno delle archistar prevale sul contenuto e sugli strumenti per la produzione culturale. L’idea di moltiplicare musei e sale da concerto per un consumo non molto diverso dal quello dei parchi giochi è alla fin fine debole e di corto respiro, funzionale all’esibizionismo artistico in cui prevale la capacità di comunicare su quella di indagare. Allo stesso modo il turismo culturale non può essere la grande leva dello sviluppo deindustrializzato, senza che le due cose entrino inevitabilmente in contraddizione.
D’altra parte qualcosa da mangiare, da indossare e con cui spostarsi è pur sempre necessaria, per non incorrere nel paradosso di quella pubblicità francese in cui il marito sbeffeggia la moglie che ancora usa la carta e non il tablet per fare la lista della spesa o per prendere appunti di qualsiasi genere, fino a quando non trovando più carta igienica in bagno la deve chiamare in soccorso e lei, giustamente, gli passa un ipad.
Arpaia e Greco una proposta forte però la rimettono in campo: quella di Jacques Delors della knowledge based economy, progetto ove il mutamento della catena produttiva, dei metodi dell’organizzazione del lavoro e conseguentemente dei rapporti sociali si intreccia con il mutamento tecnologico, con la globalizzazione e le sue contraddizioni, con la creazione di nuovi prodotti. Di questo dovremmo discutere in Italia, non perdendo l’occasione del Programma Europa Creativa 2014-2020 e dell´imminente semestre italiano di Presidenza Ue. L´economia basata sulla conoscenza ha bisogno per realizzarsi di investimenti, di politiche nazionali ed europee per l´istruzione, la produzione artistica, l´innovazione d´impresa e di prodotto, la ricerca, la tutela del copyright e altro ancora.
A questo proposito uno degli aspetti più interessanti del libro e l’analisi e l’attenzione posta al tema del lavoro e della sua giusta remunerazione nel settore culturale e creativo, con la sottolineatura che la precarietà, la debolezza del reddito, l’assenza di strumenti adeguati di gestione del mercato del lavoro e della protezione sociale sono uno dei principali limiti allo sviluppo dell’arte e della creatività, cioè dell’economia nella società della conoscenza. Il lavoro è anche qui l’aspetto centrale, consapevolezza nuova e importante. Solo il Pd, negli Stati generali della cultura di due anni or sono, ne ha rimarcato il valore strategico per lo sviluppo del settore, oltre che per i diritti dei suoi operatori.