Se la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi, poche cose sono peggiori dell’andare in guerra con le idee confuse. E la guerra civile siriana ha già portato a galla una confusione drammatica: da un lato la fragilità del fronte interventista, con David Cameron messo in minoranza dal proprio parlamento e il presidente degli Stati Uniti sempre più incerto e isolato, dall’altro l’assenza dell’Europa, nuovamente divisa e anche per questo incapace di premere efficacemente per una soluzione diplomatica.
Quella che si sta svolgendo in Siria non è una rivolta di popolo per la democrazia, né un episodio di “lotta al terrorismo” di un paese laico minacciato dall’islamismo radicale, come Assad ha provato a raccontarla. È una guerra civile in cui si mescolano ambizioni geopolitiche e conflitti etnici. Le minoranze etniche, raccolte attorno al regime, beneficiano del sostegno russo e di quello iraniano; la maggioranza sunnita è il motore dell’opposizione armata, sostenuta dalle petromonarchie del golfo (che hanno alimentato la presenza salafita), dalla Turchia e dal patrocinio occidentale. In altre parole la Siria è il campo di battaglia di un conflitto più grande che contrappone culture, etnie e potenze regionali e che attraversa, in forme diverse, anche Iraq, Afghanistan, Libano, Egitto, Tunisia e minaccia di infiammare il Mediterraneo intero.
Un intervento militare “punitivo” rischia solo di acuire il conflitto, accentuando l’impressione di un’alleanza tra Stati Uniti e monarchia saudita e lasciando aperte due possibilità: o l’esplosione di una guerra su larga scala o la trasformazione della Siria in protettorato dell’Arabia Saudita, uno dei regimi più oscurantisti al mondo, iperattivo, grazie alle immense ricchezze della famiglia reale, nel tentativo di espandere l’islam wahabita e protagonista nel finanziamento dei gruppi salafiti in Africa e Medio Oriente.
Chi davvero vuole scongiurare il rischio di un intervento militare contro il regime siriano non può limitarsi a constatare dati di fatto e digiunare: anche la pace, in fondo, è una prosecuzione della politica. In Siria la guerra c’è già, non sarebbe un frutto dell’intervento occidentale e il sangue di più di centomila vittime è stato già versato, ben prima dell’utilizzo di armi chimiche. Un’occasione è stata persa al momento del rifiuto di aprire i negoziati di pace in assenza delle dimissioni di Assad. Del resto l’occidente, molto attento alle questioni di carattere geopolitico, finisce spesso per non vedere la storicità del problema dei paesi arabi, continuando a investire su una politica di “regime change” con l’obiettivo di sostituire regime amico a regime nemico. Ovunque in Medio Oriente si sia sperimentata questa formula ha fallito, con il protrarsi di spargimenti di sangue, attentati terroristici, continue tensioni che fanno presagire rischi di nuove guerre civili.
Il cuore del problema è infatti lo stato e il rapporto dei popoli arabi con lo stato. Disegnati dai vincitori della Prima guerra mondiale in funzione dei propri interessi sui mari, le risorse energetiche e i traffici commerciali, i confini di quei paesi non hanno alcuna base storica. Proprio i regimi nazionalisti nati con l’obiettivo di liberarsi dalla presenza coloniale, in maggioranza guidati da militari laici e occidentalizzati, hanno introiettato una cultura dello stato forte e invadente del tutto estranea alla storia degli arabi. Col fallimento del tentativo nazionalista in quelle regioni lo stato è diventato, in questo la Siria è emblematica, lo strumento che gruppi etnici hanno utilizzato per imporre la propria autorità ad altri gruppi etnici, mediante il controllo dell’esercito, l’imposizione di un’identità nazionale e la negazione del pluralismo linguistico, culturale, sociale e politico.
Una conferenza di pace sulla Siria dovrebbe partire dalla constatazione che non è sufficiente convocare elezioni democratiche (l’evoluzione drammatica della vicenda egiziana sta lì a ricordarcelo). Occorre infatti modificare profondamente la forma dello stato che i siriani hanno sperimentato, mettendoli in condizione di non temere, per ragioni etnico-confessionali, per la propria vita e per la propria libertà. Ciò comporta innanzi tutto due cose: prevedere ampi margini di autonomia di governo per le comunità che compongono il variegato mosaico del paese e ridefinire composizione etnica e ruolo delle forze armate. Qualsiasi tentativo di smembrare il paese in più staterelli, invece, lascerebbe dietro si sé valanghe di rivendicazioni territoriali che nuovi eserciti tenterebbero diligentemente di soddisfare. Mentre cambiare solo il clan al potere alimenterebbe le paure di ritorsioni e la disponibilità al conflitto delle minoranze escluse.