Su una cosa tutti e quattro i candidati alla guida del Partito democratico sono d’accordo: occorre una legge elettorale maggioritaria che garantisca il bipolarismo. Personalmente, ritengo che abbiano tutti e quattro torto. E che l’unico vero “inciucio” che ha permesso a Silvio Berlusconi di dominare per vent’anni la politica italiana, potendo contare sul pieno controllo ora della maggioranza ora dell’opposizione, sia tutto qui. Senza l’ostinata difesa del bipolarismo di coalizione, senza una sinistra impegnata a ripetere ossessivamente che le alleanze devono stringersi prima del voto e davanti agli elettori, il Cavaliere avrebbe potuto fare ben poco. Con il 25 o 30 per cento raccolto di volta in volta da Forza Italia non sarebbe certo andato lontano, e nemmeno con il 37 toccato dal Pdl nel 2008 (partito che comunque, senza il potere di ricatto del meccanismo bipolare, non sarebbe neanche nato).
Le parole con cui oggi Matteo Renzi è tornato a spiegare perché l’Italia abbia bisogno di maggioritario e bipolarismo sono particolarmente significative. “Angela Merkel ha stravinto le elezioni, ha fatto il 42% – ha detto Renzi a Repubblica Tv – ma ha un sistema proporzionale per cui deve governare con qualcun altro. In America, il presidente che prende un voto in più, o anche meno, purché prenda un grande elettore in più, è il presidente”. Non si poteva scegliere paragone migliore in momento migliore, con la Germania che viene da un decennio di stabilità di governo, crescita economica ed egemonia politica sull’intera Europa da un lato (a rappresentare il sistema politico che non funzionerebbe) e dall’altro gli Stati Uniti, con l’intero governo che è rimasto paralizzato per settimane, costretto a chiudere uffici e parchi pubblici perché nel parlamento non si è trovato l’accordo sul bilancio (a rappresentare il sistema che funziona). Per evitare l’accusa di antiamericanismo ideologico, citerò in proposito l’incipit di un commento apparso giusto oggi sul Financial Times a firma di Gideon Rachman: “La crisi americana sul tetto del debito ha raggiunto un risultato piuttosto ragguardevole. Ha fatto sembrare l’Unione europea ben governata al confronto”.
Dal ribaltone del 1994 al voto di fiducia al governo Letta del 2 ottobre scorso, sono venti anni che il centrosinistra tenta di spaccare il centrodestra per liberarlo dalla morsa di Berlusconi e al tempo stesso difende un sistema istituzionale che rende impossibile riuscirci. Sono vent’anni che il centrosinistra sostiene il principio secondo cui i voti non vanno ai partiti ma alle coalizioni e al loro leader: e così qualsiasi manifestazione di dissenso dal capo diventa un tradimento degli elettori, qualsiasi tentativo di metterlo in discussione una manovra di palazzo ai limiti dell’eversione. Sono vent’anni che il centrosinistra si lamenta dello strapotere berlusconiano e al tempo stesso non fa che scimmiottare il suo modello, difendendone strenuamente le fondamenta. C’è poco da fare: fino a quando non avremo risolto la contraddizione istituzionale non riusciremo a risolvere neppure il problema politico. Inutile illudersi che la magistratura o semplicemente il passare del tempo possano risolverlo al nostro posto. La ragione per cui la divisione forzosa dello spettro politico in due blocchi incomunicanti favorisce il centrodestra, infatti, non dipende dalle tv, dai miliardi o dalla personalità di Berlusconi. Dipende dalla storia d’Italia.