Dall’esplosione della crisi economica mondiale a oggi, due sembrano essere le principali novità apparse sulla scena internazionale: l’elezione di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti, all’inizio di questa fase, e l’ascesa al soglio pontificio di papa Francesco, alla fine, appena pochi mesi fa.
Il nesso causale tra la crisi economica e l’elezione di Obama è evidente, considerato che la stessa campagna elettorale dovette essere praticamente sospesa per consentire a entrambi gli schieramenti di approvare in parlamento il più grande piano di aiuti di stato della storia americana. Ma è difficile non sentire anche nelle parole, nel tono e nei gesti di papa Francesco qualcosa di più di una generica sensibilità al contesto in cui si è trovato a esercitare il suo magistero. Certo è che se il passaggio dalla stagione di George W. Bush a quella di Obama è stato brusco, sembra niente al confronto del passaggio da papa Ratzinger a papa Bergoglio. D’altra parte, tanto il pontefice del discorso di Ratisbona pareva accordarsi con la filosofia dell’amministrazione neoconservatrice quanto le parole di Francesco paiono sposarsi con la retorica del presidente premio Nobel per la pace.
Difficile, pertanto, resistere alla tentazione di individuare un nesso tra le due successioni. In un mondo sconvolto dalla crisi economica come da una guerra mondiale, dopo aver visto l’erede di John Fitzgerald Kennedy salire alla presidenza degli Stati Uniti, vediamo ora salire sul soglio di Pietro quello che sembra a tutti gli effetti l’erede di Giovanni XXIII. Tanto dovrebbe bastare per guardare al futuro con speranza e fiducia: dopo i guasti prodotti negli ultimi quarant’anni dalla lunga egemonia della destra, il mondo sembrerebbe finalmente cominciare a girare nella direzione giusta.
Eppure, mentre tutto questo accade, resta una sensazione di spaesamento, uno stupore che sconfina nell’amarezza. Un sentimento di sconfitta che non riguarda solo, com’è naturale, i tossici da scontro di civiltà. Non solo i tanti politici e intellettuali che oggi ci piace immaginare chiusi nelle loro casette – sul comodino il dialogo sul relativismo tra l’allora cardinale Ratzinger e Marcello Pera, alla televisione solo repliche del talk show di Antonio Socci ai tempi del referendum sulla legge 40 – rinserrati nel loro piccolo mondo antico come quella signora di Berlino Est in Goodbye Lenin, alla quale nessuno voleva dire della caduta del muro. Non c’è niente da fare, la sensazione di spaesamento non riguarda solo loro. Prima di Obama e del discorso del Cairo, quanti di noi avrebbero avuto il coraggio di parlare in quei termini del dialogo con il mondo islamico e dei problemi del Medio Oriente, sommersi com’eravamo dalla retorica della war on terror? E cosa dire di un papa che oggi dichiara candidamente di non ritenere essenziali questioni come aborto, matrimonio omosessuale e contraccezione, cioè esattamente il cuore di quelli che solo pochi anni fa la Conferenza episcopale definiva “principi non negoziabili”, e in un’intervista alla Civiltà cattolica dice addirittura di ritenere che non sia necessario “parlarne in continuazione”?
Certo, scettici e cinici impenitenti potrebbero obiettare, non senza qualche ragione, che l’amministrazione Obama non è stata finora il regno della pace perpetua, che la retorica del dialogo e della speranza si è scontrata spesso con le dure necessità della politica, mentre il papa, almeno finora, ha fatto solo un sacco di bei discorsi. Ma non è questo il punto.
Il punto è che nel nostro paese i primi a essere spiazzati e a non sapere come confrontarsi con queste novità, comunque le si giudichi, sembrano essere proprio dirigenti, intellettuali e militanti della sinistra. L’impressione è che siano proprio loro i reclusi di una Berlino Est che non esiste più, che i veri protagonisti di questo assurdo Goodbye Ratzinger non siano i suoi apologeti, ma i suoi critici. Noi, insomma. Perché l’arrivo di Obama prima e di papa Francesco poi ci ha colti peggio che impreparati. Ci ha colti cinici, sfiduciati e già così profondamente rassegnati al peggio che quando invece alla porta della storia ci si è presentato il meglio non l’abbiamo nemmeno riconosciuto.
Un caso clamoroso di distacco dalla realtà per eccesso di realismo. Del resto solo così, con un paradosso, si può spiegare l’esito paradossale di questi ultimi due anni. Due anni che abbiamo passato, da un lato, a inseguire l’Italia moderata che avrebbe dovuto riconoscersi nella sobrietà di Mario Monti, senza accorgerci che questa si apprestava a votare in massa per l’inventore del Vaffa Day; dall’altro, ad accettare un po’ alla volta persino i cosiddetti “principi non negoziabili” – come hanno fatto illustri intellettuali della sinistra, inseguendo il primo pontefice dimissionario nella storia della chiesa – mentre gli stessi cardinali si apprestavano a eleggere un papa convinto che di tali principi non c’è alcun bisogno di “parlare in continuazione”. In entrambi i casi, il meno che si può dire è che la storia ci ha preso in contropiede.
Al termine di un intero numero sulla chiesa, ci si perdonerà se tradiremo i segni di una diversa formazione, ma non crediamo che questo spaesamento fosse inevitabile e naturale, né pensiamo che si possa prenderne atto semplicemente con una scrollata di spalle, magari aggiungendo con compiacimento che ci sono più cose tra cielo e terra di quante ne sognino le nostre filosofie. Anche perché è parecchio ormai che dalle nostre parti si fa ben poca filosofia. Al contrario, un pragmatismo senza principi si è troppo spesso accompagnato a una resa incondizionata allo spirito del tempo.
La scossa alla storia del mondo e ai vecchi modi di pensare che è venuta ovunque dalla grande crisi – ovunque tranne che in Italia, s’intende – ci ha sorpresi così, appena spogliati degli antichi ideali e prima ancora che avessimo il tempo di afferrarne dei nuovi, ma in compenso rapidissimi a coprire le nostre vergogne con ogni genere di demagogia. Perché una volta abbandonata l’idea del conflitto, rimossa come indicibile la stessa idea che nella società persistano enormi differenze di classe e abbandonato di conseguenza il principio di rappresentanza, su che base un partito misura la possibilità o meno di giungere a un compromesso, con quale metro stabilisce se una scelta è un cedimento inaccettabile alle ragioni dell’avversario o un grande passo avanti per tutti? In che modo, in definitiva, identifica bene e male? Questa è la vera questione morale della politica italiana degli ultimi vent’anni, che la possente scossa della grande crisi ha finalmente scoperchiato, trovandoci drammaticamente a corto di punti di riferimento. E talmente fermi sulle gambe da farci superare a sinistra dal presidente degli Stati Uniti e dal papa.