Era il maggio del 2010 quando è andata in onda l’ultima puntata di Lost, una delle serie più popolari degli ultimi anni, eppure a tre anni dalla sua conclusione siamo ancora qui a discuterne. Il motivo è semplice: i fan più affezionati non si sono ancora rassegnati al suo epilogo. Perlomeno quelli che l’avevano preso più alla lettera.
Ancora il 2 ottobre scorso, un esausto Damon Lindelof, uno dei celebri sceneggiatori della serie, ha approfittato della conclusione di un’altra serie di successo (Breaking Bad) per esibirsi in un ultimo accorato sfogo contro tutti i critici, fan delusi e raffinati commentatori che in questi anni non hanno fatto altro che torturarlo per il modo in cui si chiude la saga, concludendo l’articolo con un definitivo: “It’s the story that we wanted to tell, and we told it. No excuses. No apologies”. Il fatto è che la storia che volevano raccontare non era quella che avevamo creduto.
Quando Lost è cominciato, nove anni fa, era a tutti gli effetti un serie che viaggiava allegramente tra avventura e mistero, con una buona dose di occhialuta fantascienza. Nulla veniva mai mostrato realmente, tutto rimaneva sempre su quella sottile linea di confine tra ciò che vuoi vedere e ciò che vedi davvero. Ma la verità è che tutti ne eravamo certi, tanto più che a garantire la purezza dell’esperienza fantascientifica c’era J.J. Abrams, l’ideatore della serie. Colui che, da Alias a Fringe passando per Star Trek fino ad arrivare tra non molto a Guerre Stellari, non si è lasciato scappare nemmeno una produzione in cui si parlasse, anche solo di striscio, di tecnologia, scienza e fantascienza. Insomma c’erano tutti i requisiti base. E infatti assieme ai quarantotto superstiti, miracolosamente sopravvissuti a uno spettacolare disastro aereo e dispersi su una misteriosa isola nel mezzo dell’oceano, c’era un po’ di tutto. C’erano mostri composti da anelli di fumo che emettevano versi da dinosauri, orsi polari che passeggiavano indisturbati su un’isola tropicale, strani fenomeni elettromagnetici che governavano il mondo, una bizzarra sequenza numerica che si ripeteva ossessivamente, una misteriosa organizzazione che faceva esperimenti su esseri viventi e maligne presenze non meglio identificate che tendevano a voler uccidere i protagonisti della serie e che venivano denominati “gli altri”. Un luna park ambulante per ogni piccolo nerd che si rispetti, una specie di sogno a occhi aperti per tutti gli appassionati di qualunque vaccata tecnologica, invenzione fantascientifica e cospirazione interplanetaria. C’era tutto. Non mancava proprio niente. Se questa non era una serie per veri nerd non sappiamo proprio cosa fosse. E probabilmente, ormai, non lo sapremo mai con esattezza.
La verità, infatti, è che Lost è sempre stata in tutto e per tutto una serie sulla fede. Sulla fede dei suoi telespettatori, che hanno seguito senza un momento di esitazione ogni più assurdo sviluppo della trama, confidando di poter un giorno scoprire tutto l’inspiegabile. Sulla fede dei suoi personaggi, che venivano continuamente messi alla prova, di fronte a scelte che avrebbero determinato il loro destino. E sulla fede – ora lo possiamo dire – che era alla base dell’intero arco narrativo della serie. La fede era il mezzo e, in ultima analisi, era anche il fine ultimo. Ma questo non lo abbiamo scoperto veramente se non alla fine. E molti non l’hanno voluto credere neanche dopo.
Dopo averci portati per mano per sei anni attraverso botole segrete e salti spazio-temporali, ci ha infine condotti là dove mai avremmo pensato di arrivare: nel mondo degli adulti. E ancora oltre, nell’aldilà, dove le questioni che contano sono la vita e la morte, la scienza e la trascendenza. Questioni di fronte alle quali le diavolerie tecnologiche hanno poi perso importanza, tanto che molte non sono mai state neppure spiegate. Perché dare quelle risposte non era ciò che lo show voleva fare. O forse erano le domande a essere sbagliate, che poi si finisce a fare la figura di quelli che di fronte ai grandi problemi da risolvere perdono tempo a rendicontare gli scontrini.
Eppure gli indizi c’erano fin dall’inizio. Ma tutto era mescolato sapientemente per farci vedere solo ciò a cui eravamo preparati e in ultimo, si intende, per vendere il prodotto al pubblico (e venderlo anche alla ABC che lo mandava in onda, naturalmente). Basti pensare – ma potremmo citare altre decine di simili dettagli – che Jack, il chirurgo che lotta in continuazione per tenere assieme il gruppo di sopravvissuti, spesso anche contro il volere del gruppo stesso, l’uomo di scienza che si rifiuta di credere fino a rasentare l’elasticità mentale di un sasso, di cognome fa Shephard, che in inglese sta per pastore. E il numero simbolico che lo perseguita ciclicamente è il 23, ed è il 23 il salmo della Bibbia che dice: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”. E sarà proprio lui che infine si sacrificherà per salvare i compagni, l’isola e il mondo intero, colui che a tutti gli effetti possiamo considerare il redentore. Ma non solo. Suo padre, il cui feretro sarà costretto a trasportare su quel maledetto aereo, da Sidney a Los Angeles, e che lo perseguiterà come una sorta di fantasma per tutta la serie, si chiama Christian, Christian Shephard. Perché a volte non c’è trucco migliore, per nascondere le cose, che lasciarle in bella evidenza.
Sarà proprio Christian nell’ultima scena, alle porte del paradiso o del Valhalla o di quel che volete, a spiegare al figlio e a tutti i più duri di comprendonio cosa abbiamo guardato e in cosa abbiamo creduto – veramente – nei precedenti sei anni di (tele)visione.
Jack chiede al padre: “Sono tutti morti?”. E quello risponde: “Tutti muoiono prima o poi, ragazzo. Alcuni prima di te, altri molto dopo di te”. “E perché sono tutti qui, ora?”. “Beh, non esiste alcun ora qui”. “Dove siamo, papà?”. “Questo è un posto che avete creato tutti insieme, perché poteste ritrovarvi. La parte più importante della tua vita è stata il tempo che hai passato con queste persone. È per questo che siete tutti qui. Nessuno muore da solo, Jack. Avevi bisogno di tutti loro e loro avevano bisogno di te”. “Per cosa?”. “Per ricordare. E per lasciare andare”. “Kate ha detto che stavamo andando via”. “Non andando via, no”. “Andando avanti”.
Il posto in cui avviene questa conversazione è una chiesa. Materialmente, ma anche metaforicamente. È una stanza in cui si intravedono simboli religiosi di ogni tipo, senza alcuna distinzione. Ma soprattutto un posto che li identifica come comunità. È un luogo dell’anima, se vogliamo, quello che hanno costruito vivendo, crescendo, morendo assieme. Quella che per mesi abbiamo pensato fosse solo un’ulteriore diavoleria degli sceneggiatori, un mondo parallelo creato da leggi elettromagnetiche, da esplosioni interplanetarie, da forze inimmaginabili ma esattissime, era invece il posto nel quale ogni anima era in attesa di ricordare il passato per risvegliarsi, un luogo di passaggio in cui aspettare gli altri per andare avanti. Assieme. È in quel momento che Jack ha la certezza di averli salvati tutti. In vita, in un modo che mai avrebbe immaginato.
È solo il quinto episodio della prima stagione, infatti, quando li mette di fronte a una scelta per la prima volta: discutono, litigano, imbrogliano, vogliono sopravvivere in qualche modo, in qualunque modo, ma Jack interviene: “Every man for himself is not going to work […] If we can’t live together, we’re gonna die alone”. (“Ognuno per sé non funzionerà […] Se non siamo capaci di vivere insieme, moriremo soli”). Questa frase, “Live together, die alone”, diverrà il mantra di tutta la serie, da ripetere ossessivamente, come fosse quasi un presagio di sventura, un avvertimento. E invece era la chiave della loro intera esistenza, dell’intera serie. Nel cercare quotidianamente di farli stare assieme tra inganni, sospetti, tradimenti – anche oltre la normale ragionevolezza – nelle tragedie più dolorose, negli errori più imperdonabili e nelle paranoie più insospettabili, ha fatto sì che infine potessero essere una vera comunità, dando loro un vero motivo per vivere, per crescere e perfino per morire.
Perché Lost, in fondo, è sempre stato questo, un racconto corale su un gruppo di uomini perlopiù feriti, sconfitti, soli, che il destino fa ritrovare sullo stesso aereo e poi precipitare su un’isola apparentemente deserta, ma piena di forze maligne – nel senso biblico del termine – che per tutto il tempo cerca di dividerli, sconfiggerli e infine ucciderli. In ogni puntata, attraverso pedantissimi flashback, abbiamo ripercorso la vita di ogni protagonista, gli errori e i tormenti, in sostanza tutte le sfighe cosmiche che per coincidenze a decine hanno fatto sì che fossero su quell’aereo. Si trattava del loro passato, sostanzialmente. E insieme del loro presente, del modo in cui sopravvivevano sull’isola. I losties, come comunemente venivano chiamati, si erano persi psicologicamente, emotivamente e talvolta perfino fisicamente, molto prima di perdersi su quell’isola tropicale. Ma è su quell’isola che infine possono ritrovare se stessi. Decidendo come vivere la loro esistenza assieme agli altri superstiti. Decidendo come superare le difficoltà: se ognuno per se stesso, sulla pelle degli altri, o insieme. Che è ciò che farà la differenza in ogni snodo della serie, e nel momento finale.
Ogni svolta narrativa si è praticamente sempre giocata tra una scelta individualistica, che magari al momento premiava la vittoria del singolo, e una altruistica, che guardava al bene del gruppo, dei compagni, al destino comune. Di fronte al male assoluto che non ha fatto altro che renderli egoisti, paranoici e fondamentalmente soli, hanno scelto pian piano – talvolta inconsapevolmente – la via della fede, del sacrificio, dell’amore per gli altri. Una scelta che ha determinato il loro destino, come persone e come comunità. Perché si vive assieme o si muore da soli.
Si può capire il disappunto per tutti quelli che aspettavano una soluzione sotto forma di equazione numerica. Un grafico con le freccette. O anche solo una formula magica, ché si è sempre disposti a credere a qualche teoria fantasiosa, pur di non dover affrontare le cose che contano davvero.
Nell’era del liberismo senza regole, dell’individualismo senza carità, della democrazia diretta senza partiti, Lost ci distraeva con giochini colorati, chincaglierie tecnologiche e complotti gravitazionali mentre ci stava dicendo – nostro malgrado – che uno non vale uno, se si è in una comunità di persone. E che il migliore di tutti da solo non ce la fa. Che la via della felicità – perfino quella eterna – passa dal condividere con gli altri gli sforzi, le paure, i sacrifici. Che l’aiutarsi gli uni con gli altri è la chiave per andare avanti. Finanche dopo la morte.
Uno dei più popolari racconti televisivi del nostro tempo ci ha inaspettatamente portato fin lì, alle soglie del paradiso, a ricordarci che nessun uomo è un’isola, neppure su un’isola deserta.