Per un curioso scherzo della storia, il voto di fiducia della Camera dei deputati al nuovo governo guidato da Matteo Renzi cade a un anno esatto dalla drammatica notte delle elezioni in cui il sogno di un governo di centrosinistra fu spazzato via dal voto degli italiani. Un voto che fotografò un paese diviso, rabbioso, disilluso. E che consegnò alla sinistra una sconfitta tanto inattesa quanto dolorosa, che ancora oggi qualcuno prova a esorcizzare sottovalutandone la portata e il significato.
Il governo Renzi è l’inevitabile conseguenza di quanto accaduto quella sera, lo sbocco obbligato di un anno difficilissimo, a cui tutti abbiamo pagato un prezzo. Lo ha fatto chi nel Pd ha dovuto accettare l’idea di un governo di compromesso, costruito con gli avversari di sempre. Lo ha fatto chi di quella esperienza è stato protagonista e ha dovuto subire il trauma di una sostituzione brutale. Lo ha fatto anche Matteo Renzi, che ha dovuto rinunciare a una parte non piccola del racconto con cui aveva costruito il suo successo, accettando di andare a Palazzo Chigi senza passare dal voto.
Siamo dunque a un passaggio difficile, lacerante per il Pd. Ma inevitabile. Figlio dell’incapacità di Letta non di cambiare passo, ma di cambiare la direzione di marcia del suo esecutivo, lanciato contro gli scogli dall’ideologia dell’austerità. E dalla incomprensione del passaggio politico aperto dalla scelta di Renzi di candidarsi alla guida del Pd, rinunciando allo schema dell’opa esterna, della costruzione di una leadership forte perché “altra” dal proprio partito.
Renzi è presidente del Consiglio perché ha vinto il congresso, Enrico Letta non lo è più perché ha rinunciato a giocare la partita. Questo – l’impossibilità di legittimare una leadership senza passare per i meccanismi democratici garantiti dalla democrazia dei partiti – è forse uno degli aspetti sistemici più positivi di quanto accaduto, che sembra sfuggire ai tanti presidenzialisti inconsapevoli che ripetono la sciocca litania della mancanza di legittimazione popolare. La nostra Costituzione prevede che a godere di una legittimazione diretta da parte del voto popolare sia solo ed esclusivamente il parlamento.
Quello nato oggi è dunque un governo pienamente legittimo. Ed è un governo politico nel senso più pieno, in cui il ruolo del Pd è assai maggiore di prima. Dunque maggiore sarebbe il prezzo che il Pd pagherebbe al suo fallimento. La verità è che non ci sono più alibi. Certo non può esserlo la maggioranza composita che ha accordato la fiducia: in questi mesi le resistenze principali a un cambio di rotta nella politica economica non sono venute dal centrodestra, ma dal presidente del Consiglio uscente e dal suo ministro dell’Economia. Su questo terreno si misurerà il tasso di discontinuità del nuovo esecutivo.
Pier Carlo Padoan, a differenza dei suoi più recenti predecessori, è un uomo di sinistra. E come molti uomini di sinistra in questi anni ha subito il fascino di idee di destra. Idee spesso presentate come antidoti alla crisi di cui erano invece la causa. Oggi Padoan dovrà dunque laicamente far tesoro delle lezioni della storia. E lo stesso dovrà fare il presidente del Consiglio, uscendo una volta per tutte da un racconto dell’Italia buono per piacere a qualche editorialista, ma assolutamente inadeguato a guidare la rinascita del paese. Senza una radicale discontinuità, quanto avvenuto non avrebbe senso e tra qualche mese ci ritroveremmo al punto di partenza, mettendo a bilancio un nuovo fallimento. La vera sfida che il Pd ha di fronte è proprio qui. “Cambiare verso” alla crisi, rottamando idee e ricette che anche Renzi ha coltivato in questi anni. Su questo si misurerà la capacità del presidente del Consiglio di essere all’altezza del coraggio e della innovazione a cui continuamente si richiama.