Nessuno era comunista perché Togliatti era una brava persona. La figura del rifondatore del Pci, padre della Costituzione e della democrazia repubblicana, non si ritrova nelle opere di alcun cantautore impegnato. Ricorre soltanto – si fa per dire – nei canti popolari dell’immediato dopoguerra: nella tradizione orale, e anonima, del movimento dei lavoratori. Non ha ruoli significativi in alcun film, racconto o romanzo degli ultimi quarant’anni che abbia lasciato qualche traccia di sé.
Di Palmiro Togliatti, tra persone istruite, si parla soltanto per dirne male. O meglio, per dire male di qualcun altro. Togliattiano è diventato infatti sinonimo di cinico e spregiudicato. La figura storica del Migliore è rievocata soltanto in relazione ai crimini dello stalinismo e alle corresponsabilità del capo del Pci nella Mosca degli anni trenta. Che cosa abbia fatto nell’Italia degli anni quaranta, come abbia costruito e difeso le stesse condizioni di possibilità di una democrazia nel nostro paese, affrontando quali opposizioni e quali rischi, invece, è un tema di cui può capitare di sentir discutere soltanto ai convegni dell’Istituto Gramsci o in poche altre cerchie di affezionati cultori della materia.
Le ragioni di una simile damnatio memoriae hanno poco a che fare con la tragica sorte del partito comunista polacco, o con le pagine più oscure della guerra di Spagna, e molto a che vedere con la liquidazione del Partito comunista italiano, del suo ruolo e della sua eredità storica. All’inizio degli anni novanta, infatti, la demolizione della cosiddetta Prima Repubblica passava dalla cancellazione dei partiti che l’avevano edificata, dalla delegittimazione del patto costituzionale su cui era stata fondata. All’espulsione di Palmiro Togliatti dal pantheon repubblicano corrispondeva la repentina traslazione della figura di Alcide De Gasperi da padre costituente a padre nobile di Forza Italia. O meglio: l’espulsione di Togliatti dal pantheon e la sua emarginazione tra i relitti degli anni trenta erano necessarie proprio per potere ricollocare De Gasperi, che con lui aveva posto le basi della democrazia italiana. Un bipolarismo storiografico che apriva le porte alla lunga campagna per la costruzione di un altro sistema politico, ispirato a un altro modello istituzionale e ad altri valori. E di conseguenza a un altro lessico: con governabilità e leadership al posto di rappresentanza e partecipazione, mercato e concorrenza al posto di diritti e responsabilità sociale, questione settentrionale e federalismo al posto di questione meridionale e unità nazionale.
Da una radicale rilettura della storia discendeva una completa riscrittura del futuro. Tra le macerie del muro di Berlino, le convulsioni della crisi finanziaria e gli scandali sollevati da Mani Pulite, si celebrava alla svelta il funerale del sistema politico e costituzionale che in quarant’anni aveva portato l’Italia, una nazione uscita in ginocchio dalla guerra e da vent’anni di dittatura fascista, ancora in gran parte analfabeta e poverissima, a divenire una delle più prospere democrazie del pianeta, tra le maggiori potenze industriali, ai primi posti nel mondo per durata e qualità della vita. Con la vittoria del referendum per il maggioritario nel 1993 nasceva ufficialmente la Seconda Repubblica: una stagione che negli annali statistici sarà ricordata come la più lunga fase di stagnazione economica dell’Italia repubblicana, contraddistinta dal più grande aumento delle diseguaglianze sociali, territoriali e generazionali avvenuto in democrazia, segnata politicamente dall’ascesa del berlusconismo. Senza dubbio il più lungo periodo di regressione civile e culturale della storia nazionale dopo il fascismo. La campagna contro Togliatti, anche all’interno della sinistra, era dunque parte fondamentale della battaglia per l’abbandono di un sistema politico-istituzionale, quello disegnato nella carta del ’48, e l’adozione di un altro modello, quello americano, che di tutto il complesso sistema di garanzie, pesi e contrappesi previsto negli Stati Uniti avrebbe però importato ben poco, scivolando piuttosto verso il populismo sudamericano.
In quest’ottica, la demonizzazione di Togliatti non coincideva soltanto con la riduzione di De Gasperi alla caricatura del campione anticomunista del ’48, ma si accompagnava anche a una radicale deformazione del ruolo di Enrico Berlinguer, che non a caso subiva una progressiva de-togliattizzazione, fino a farne quasi il padre nobile del grillismo. Alla demonizzazione del Migliore si accompagnava cioè la santificazione di un Berlinguer che aveva molto poco del padre del compromesso storico, e molto, semmai, dei suoi più acerrimi nemici, con la rimozione della strategia politica che aveva perseguito per buona parte della sua vita e la deformante enfatizzazione delle parole d’ordine dei suoi ultimi anni, nel momento in cui quella strategia era entrata in crisi, a cominciare dalla questione morale. Così nella rappresentazione canonica del dibattito pubblico Togliatti e Berlinguer finiscono per simboleggiare i poli opposti del cinismo e dell’idealismo: da un lato la politica come ricerca del potere per il potere, dall’altro la coraggiosa denuncia di quella stessa degenerazione in nome di più alti principi morali. Un quadro doppiamente fuorviante, una duplice deformazione ancora oggi ben visibile, nell’anno in cui ricorrono il trentesimo anniversario dalla morte di Berlinguer e il cinquantesimo dalla scomparsa di Togliatti.
Quando Berlinguer parlava di un «nuovo grande compromesso storico », il precedente cui si rifaceva esplicitamente altro non era, infatti, che la strategia togliattiana di unità nazionale, il patto costituente con la Dc di De Gasperi. Quella era – a giudizio di Berlinguer – la stagione più alta e feconda del comunismo italiano, il momento in cui il Pci aveva saputo assolvere più che mai a quella funzione nazionale di cui parlava Gramsci nei suoi Quaderni del carcere, una stagione irripetibile che nella crisi drammatica degli anni settanta gli tornava alla mente come un modello.
È tristemente paradossale che proprio quando gli eredi del Pci si accingevano a cogliere i frutti di una così lunga semina, la loro piena legittimazione come forza di governo dovesse passare dal disconoscimento dell’uomo che più di ogni altro, con De Gasperi, aveva lottato e rischiato per costruire la democrazia italiana, per dare al paese quella Costituzione che avrebbe tutelato libertà e diritti di tutti gli italiani per mezzo secolo, aprendo la strada a uno sviluppo democratico, economico e civile senza precedenti.
Certo, nessuno era comunista perché Togliatti era una brava persona. Ma senza Togliatti, con Stalin alla guida dell’Unione sovietica e la guerra fredda alle porte, difficilmente il Pci sarebbe stato capace di tenere a freno le infinite spinte disgregatrici, rivoluzionarie e radicali, che si muovevano dentro e attorno alla sua organizzazione, incanalandole disciplinatamente nel meccanismo democratico costituzionale. Lo ha ricordato ultimamente Emanuele Macaluso in un libro prezioso: Comunisti e riformisti, Togliatti e la via italiana al socialismo (Feltrinelli). Un pamphlet sulla recente storia d’Italia che si chiude con un proverbio cinese: «Chi prende l’acqua da un pozzo non dovrebbe dimenticare chi l’ha scavato».