Con cauto ottimismo apprendiamo che nella politica economica europea a una stagione di austerità potrebbe finalmente seguirne una di flessibilità. Il tema diviene quindi: quale flessibilità in un’eurozona che impone alla Bce primariamente un obiettivo di inflazione? Come gestire i livelli di disoccupazione in Europa, mediamente ben oltre il 10%, ma che nelle periferie superano il 20%? Come supplire all’assenza di una politica fiscale comune per l’Europa che a oggi continua ad avere diciassette bilanci statali differenti? Basterà rinforzare il bilancio dell’Ue con i gettiti della tassa sulle transazioni finanziarie, la Tobin Tax?
Problemi simili c’erano già alla partenza dell’euro a fine anni novanta. Ben consapevoli di questi ostacoli architetturali a uno sviluppo omogeneo delle economie dell’Ue, i padri fondatori dell’euro innestarono dei supporti regolamentari ad hoc. Tre importanti direttive su come si dovessero misurare i rischi del sistema finanziario – attraverso lo schermo operativo delle agenzie di rating – sancirono che i debiti pubblici di tutti i paesi dell’area euro, nonostante le loro strutturali differenze di rischiosità, fossero da ritenersi ugualmente sostenibili. E quindi la Bce poteva finanziare il sistema bancario accettando quale garanzia qualsiasi titolo di stato europeo.
Sul deficit e sul debito pubblico si definirono alcune regole di immediata comprensione: ad esempio si decise che il 60% del rapporto debito/pil fosse un valore ottimale a cui convergere perché in media quel rapporto in Europa era appunto pari al 60%. Si ometteva un dettaglio: il come. I mercati finanziari hanno scommesso sulla tenuta di questo impianto e hanno quindi venduto i titoli di stato con tassi di interesse più bassi (tedeschi e francesi) e comprato quelli con tassi di interessi più alti (italiani, spagnoli, portoghesi, irlandesi e greci). Queste transazioni hanno portato i tassi di interesse dei vari paesi a convergere verso i livelli dei tassi tedeschi. Si può dire che la finanza è stata la cinghia di trasmissione per la germanizzazione dei tassi di interesse dell’Europa.
Non solo. I titoli emessi dai vari stati dell’Unione sono entrati indiscriminatamente nei bilanci delle banche europee: prima della crisi oltre l’80% del debito pubblico greco era presso sistemi bancari diversi da quello greco. Sempre la finanza, quindi, realizzava l’europeizzazione dei debiti pubblici dei singoli stati membri. Il meccanismo si inceppa con lo scoppio della bolla immobiliare americana che però è assai diversa da quelle che negli ultimi cento anni hanno innescato crisi finanziarie. Questa volta, complice una certa superficialità delle regole e dei controlli sulla finanza, le banche di investimento hanno malamente impacchettato i mutui in prodotti derivati e quindi notevolmente aumentato l’assunzione di rischi. Questo fenomeno determina imprevedibili fallimenti bancari come quello di Lehman Brothers e insegna ai mercati finanziari che il rischio che qualcuno, anche se molto grande, possa non ripagare i suoi debiti è un problema concreto. Ancora una volta è la finanza a favorire il contagio della crisi in Europa: le banche europee che avevano intermediato i rischi della bolla immobiliare statunitense falliscono come la IKB tedesca o vengono nazionalizzate come la Royal Bank of Scotland.
Questo mutato contesto costituisce la tempesta perfetta per la fragile Europa. Non si può più ignorare che i paesi europei non hanno tutti la stessa capacità di ripagare i loro debiti. Nel 2009 i mercati iniziano quindi timidamente a quotare differenti rischi per i debiti dei vari paesi e la germanizzazione dei tassi viene insidiata dai primi non trascurabili extra-rendimenti (il famoso spread) rispetto al Bund che invece diventa sempre più richiesto. Come conseguenza una banca che si finanzia dando in garanzia un Bund paga un costo per interessi inferiore a quello che dovrebbe sostenere dando come collaterale un assai meno gradito titolo di debito greco. Siamo però ancora a livelli di spread contenuti, per l’Italia circa 150-200 punti. Ecco, è in questo momento che le istituzioni europee dovrebbero intervenire per salvaguardare l’unitarietà dei tassi di interesse europei. Invece, prevalgono i particolarismi: la Merkel dichiara che ogni paese deve autonomamente farsi carico delle proprie crisi bancarie (novembre 2008), la Bce di Trichet adotta provvedimenti (gennaio 2011) che assecondano il fenomeno della discriminazione dei titoli di stato dati dalle banche a garanzia nelle operazioni di finanziamento e l’Italia, un po’ come i musicisti del Titanic, si trastulla in pacate rassicurazioni al mercato sulla solidità delle sue banche.
Ma se le crisi bancarie sono un problema nazionale e non europeo, se la Bce non crede più che i titoli di stato dell’Unione siano tutti uguali e anzi, nonostante la crisi di liquidità e di fiducia, aumenta due volte in pochi mesi (febbraio e luglio 2011) il costo del denaro, perché scommettere sulla tenuta dell’euro? È più razionale scommettere sul suo sfaldamento. Per fare questa scommessa va colpito il paese che per grandezza economica (livello del pil) e regole di funzionamento dell’euro (rapporto debito/pil, deficit/pil, etc.) può far saltare il banco. Purtroppo i mercati finanziari sanno bene che se salta l’Italia salta anche l’euro e scatta l’attacco speculativo sul nostro paese. Il mercato dei derivati di credito (credit default swap – cds) sull’Italia, cioè quello che consente di scommettere sulla tenuta dell’Italia e quindi dell’euro, raggiunge volumi record; addirittura i cds sull’Italia vengono scambiati solo assumendo come valuta di regolamento i dollari. Che senso ha infatti comprare un’assicurazione contro il rischio Italia che regola in una valuta che al manifestarsi di tale rischio non esisterà più? Lo spread sul Bund supera i 500 punti. E insieme all’Italia anche altri paesi della periferia. Ogni paese e ogni banca regola le transazioni finanziarie in base al proprio spread: ci sono quindi le euro-lire per il sistema Italia, le euro-pesetas per la Spagna etc. Le transazioni finanziarie in Europa cubano in media quasi 10 volte quelle dell’economia reale: a poco vale che un caffè costi un euro in tutte le capitali dell’eurozona, l’euro sui mercati finanziari si è dissolto e si negozia in valute-ombra.
Ma non è finita qui. I mercati esigono che le banche greche, spagnole, italiane acquistino il debito pubblico del proprio governo. Non conta se così si arriva al paradosso, come nel caso della Grecia, che l’attivo di una banca risulti composto quasi esclusivamente da titoli di stato del proprio paese. Dalla europeizzazione si passa alla nazionalizzazione del debito. A questo punto la disgregazione dell’eurozona sembra inarrestabile ma i 4000 miliardi di dollari immessi sui mercati dalle espansioni monetarie americana e giapponese e la dichiarazione di Draghi (settembre 2012) sulla disponibilità della Bce ad acquistare illimitatamente titoli di stato Ue consentono allo spread di normalizzarsi. Cosa che non avvenne con gli LTRO, ossia i prestiti agevolati alle banche per 1000 miliardi di euro decisi dalla Bce a fine 2011-inizio 2012. Quei prestiti infatti fornirono alle banche dei paesi in difficoltà la liquidità per pagare i loro debiti verso le banche tedesche e per nazionalizzare i debiti pubblici; servirono quindi a salvare il sistema finanziario europeo, non certo ad aiutare imprese e famiglie a uscire dalla stretta dei crediti all’economia reale (il credit crunch).
Anche le misure di Quantitative Easing annunciate quest’anno dalla Bce rischiano di muoversi esattamente nella medesima prospettiva dato che l’Eurotower non intende comprare titoli di stato ma titoli di debito privati ad alto rating, cioè crediti di elevata qualità cartolarizzati delle banche. Tenuto conto del credit crunch diffuso un po’ in tutta Europa, c’è da scommettere che le banche tedesche la faranno da padrone. Interventi che non sono la soluzione, ma solo un modo per guadagnare tempo. Guadagnare tempo rispetto a cosa? Rispetto alla revisione di regole scritte in un momento in cui il rischio di credito non esisteva (o almeno non si era manifestato concretamente) e si poteva dichiarare uguale con un tratto di penna in alcune direttive europee; rispetto a una fase in cui la media dei debiti pubblici in relazione al pil era il 60% mentre ora siamo al 90%.
Dopo quattro anni di discutibili politiche di austerità, di ristrutturazione di debiti come quello greco prive di una visione di lungo periodo, si presenta una nuova occasione in cui gli spread sono a un livello aggredibile da decisioni non convenzionali (per l’Italia, 150-200 punti). È un’occasione da non perdere, tenuto conto anche dell’attuale situazione di deflazione. Numerosi interventi sono possibili. Innanzi tutto i debiti pubblici nazionali vanno riconsiderati in chiave europea. In questa prospettiva non superiamo il 100% del pil dell’area euro. Siamo messi quindi assai meglio di Stati Uniti e Giappone e, soprattutto, diventa ipotizzabile un approccio mutualistico sensato: che ogni stato dell’Unione metta a fattor comune una quota del proprio debito in base alla dimensione del proprio pil. La Germania, avendo il pil più elevato, sarebbe lo stato con il più alto debito da mutualizzare; si dissolverebbe così lo scetticismo tedesco sugli eurobond.
D’altronde la Bce il primo passo lo ha già fatto a giugno 2014, decidendo di tenersi in pancia oltre 160 miliardi di titoli di stato italiani, spagnoli e degli altri stati periferici in difficoltà, fornendo quindi nuova moneta alle banche per alleviare le condizioni di credit crunch. È una sorta di mini-Quantitative Easing all’americana, con una sostanziale differenza: la Fed restituisce al Tesoro Usa gli interessi sui titoli del debito nel proprio portafoglio, mentre la Bce li incassa e li redistribuisce alle proprie banche centrali. Di conseguenza le banche centrali tedesca e francese ricevono una consistente fetta degli interessi pagati dalle nazioni periferiche sul proprio debito. L’Italia solo nel 2013 ha pagato circa 4 miliardi di euro di interessi di cui circa 1,5 sono stati erogati alla Bundesbank. Si tratta di un trasferimento improprio di ricchezza dal più debole al più forte cui la Bce dovrebbe subito porre rimedio, rinunciando al pagamento degli interessi.
L’originalità di simili decisioni potrebbe ridare fiducia ai mercati. Se ci crederanno, come è già successo quando partì l’euro più di quindici anni fa, sarà proprio la tanto vituperata finanza a supportare nuovamente la convergenza delle economie dell’eurozona.