Nazione senza partito

Che il Partito democratico abbia vinto 2 a 0 le elezioni regionali in Calabria e in Emilia Romagna è un fatto. Che ormai giunte di centrosinistra amministrino quasi ovunque le regioni italiane, che il Pd goda di un consenso ampio anche in nuovi settori di elettorato e che grazie a esso e a Matteo Renzi si stia finalmente e lentamente riaffermando il primato e l’autonomia della politica, pure. Ma, come già in molti hanno sottolineato in questi giorni, il voto delle regionali conferma e addirittura rilancia l’allarme su quanto non si arresti la crescita della sfiducia e la distanza dell’elettorato italiano dalla politica e dalle tradizionali forme di partecipazione. Un dato così negativo, quello fatto registrare nelle due regioni coinvolte, da non poter essere liquidato come “in linea” con la tendenza diffusa in molte altre democrazie del mondo. Noi siamo l’Italia, e nella nostra cultura politica un dato come questo richiede di essere letto e inquadrato. Anche per questo, sarebbe controproducente e drammatico se esso venisse strumentalizzato per fini di battaglia politica interna al Pd.

D’altro canto, sarebbe difficile considerare questo dato, come pure si è provato a fare in questi giorni, come un risultato determinato esclusivamente dagli ultimi mesi di governo e di gestione del Pd. Intanto perché, insieme al discredito cresciuto e maturato oltre misura intorno alle istituzioni regionali, si tratta di un voto locale su cui hanno influito indubbiamente anche vicende più territoriali e poi perché si tratta di un risultato che si inquadra, purtroppo, in un processo di disillusione e di disaffezione assai più ampio, iniziato da tempo nel nostro paese. Il punto è che per essere letto utilmente e correttamente, quel dato, certamente negativo e preoccupante, va inserito nella più ampia e ormai irreversibile crisi dei corpi intermedi così come noi li abbiamo conosciuti, vissuti e utilizzati finora.

È innegabile, infatti, che negli ultimi anni, complice il leaderismo e una sempre più accentuata personalizzazione della politica, un vero e proprio svuotamento e una vera e propria erosione delle funzioni e delle capacità si sia verificato in tutti i corpi intermedi che pure tanto hanno contribuito alla crescita e al progresso dell’Italia. Senza sindacati e partiti, e senza la loro spinta, difficilmente l’Italia si sarebbe rimessa in piedi nell’immediato dopoguerra. Ciò nonostante, da anni ormai i corpi intermedi non riescono più a svolgere in maniera adeguata la funzione per cui sono nati.

Che fare dunque? Posto che così come sono i corpi intermedi non riescono più a svolgere la loro funzione e che una loro vera e profonda riforma è necessaria, non si può però pensare semplicemente di farne a meno. Cosa resterebbe? La democrazia diretta via Facebook? O un referendum perenne sulle scelte significative da assumere? Soprattutto in un momento di così forte e drammatica tensione e sofferenza sociale, pensare di intercettare i bisogni e le necessità della “base” facendo solo affidamento sui “like” e sui “follower” sarebbe quantomeno illusorio. Anche se non è quella più semplice, quindi, la vera sfida è pensare a come ridare forza, e assieme funzione ruolo e dignità, ai luoghi fisici e non solo della rappresentanza.

Chi vogliamo rappresentare? Come? E perché? A dispetto della loro apparente banalità, sono queste le domande che dobbiamo veramente porci. Per quanto riguarda il Pd, non crediamo alla chimera del “partito della nazione”, anche perché riteniamo impossibile oltre che poco utile voler declinare la vocazione maggioritaria nella aspirazione di rappresentare “tutto e tutti”. Diverso, e giusto, è intendere la funzione della rappresentanza politica come perseguimento del bene comune di tutto il paese. Un partito sceglie sempre da che parte stare, con chi, ma anche “contro” chi. E il Pd non può che scegliere di contrastare sempre e comunque un sistema iniquo e ingiusto per realizzare invece redistribuzione della ricchezza e del benessere.

Dobbiamo però chiederci se nel frattempo le nostre tradizionali categorie di riferimento non siano state nei fatti superate dalla realtà. In un mondo in continua e perenne mutazione, infatti, è impensabile che esse non vengano modificate, riscritte e ripensate.  Dobbiamo rileggere dove stanno ora, nel terzo millennio, gli squilibri e le ragioni del disagio sociale da un lato, e le energie che possano fare da traino a sviluppo economico e umano dall’altro. È in questo quadro che si può e si deve chiedere “alleanza” ai diversi settori produttivi del paese, a partire dalle piccole e medie imprese unite da un comune destino di difficoltà e sfide con i loro lavoratori.

In questo senso ci pare piuttosto fuorviante dividerci tra chi sostiene che non c’è più differenza tra operaio e padrone e chi ne ribadisce l’imprescindibilità. La sfida della produttività non può essere vinta semplicemente sacrificando il livello dei diritti e delle tutele. Noi vogliamo estenderli misurandoci con la realtà e tutte le sue difficoltà, come si è fatto con la discussione su Jobs Act. Un semplice livellamento al ribasso non risolverebbe. Oltre che ingiusto da un punto di vista etico e politico ciò sarebbe semplicemente inutile visto il livello di competizione offerto su questo terreno dalle economie emergenti nel mondo. Molto più utile, invece, sarebbe ripensare, senza nostalgie e sguardi rivolti al passato, a un nuovo ruolo dello stato nell’economia, puntando finalmente, per esempio, su politiche industriali, investimenti pubblici, ricerca, innovazione. Viste le eccellenze presenti in questo senso su tutto il territorio nazionale, al sud come al nord, è così che il made in Italy potrebbe aiutare il sistema paese a fare il salto di qualità in termini di profitto, occupazione e competitività.

È su questo terreno che una forza di sinistra, moderna e progressista, deve affrontare e vincere la propria sfida per riscrivere il proprio ruolo, la propria funzione e la propria identità. Una sfida che può essere vinta anche grazie alla forza che ci deriva dalla scelta di iscriverci in Europa al Pse dove la nostra presenza non è certo secondaria visto il 40% ottenuto alle elezioni. Bene dunque la sfida che ci lancia oggi l’Europa: riforme in cambio di meno rigore e più investimenti. Ma per scrivere e definire riforme in condizione di non subalternità rispetto ai cosiddetti poteri forti da un lato e a tecnocrazie vecchie e nuove dall’altro, serve una politica chiara e autorevole, e corpi intermedi e soggetti in grado di interpretarla e darle voce.

Per non assistere impotenti alla rabbia delle nostre periferie dobbiamo essere capaci di farla diventare riscatto: è questa da sempre la funzione dei partiti di sinistra. È una sfida che, così come non può fare a meno dei circoli, delle sezioni, dei luoghi fisici della discussione, non può fare a meno neanche dei saperi e delle energie culturali che ormai, purtroppo, in un vero e profondo scollamento, sembrano lontane e quasi in qualche modo parallele alle forze sociali e politiche che governano il paese. Senza di loro, senza quelle energie da cui già in passato nella nostra storia abbiamo chiesto e ottenuto soccorso, nessuna riforma vera sarà possibile. E questo è un rischio che né l’Italia né il Pd possono permettersi di correre.

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Valeria Valente e Anna Rossomando sono parlamentari del Partito democratico