Parola dell’attore

Cara Left Wing,
qualche anno fa Nando Dalla Chiesa, del quale seguivo il corso di sociologia all’università, pensò bene di riunirci tutti in aula e di farci vedere “L’albero degli zoccoli” nella versione in lingua originale, quella che aveva bisogno dei sottotitoli in italiano; e poi ebbe la perfidia di imporci di scrivere una specie di tesina, da discutere in sede di esame. Sarà che il film l’avevo già visto, sarà che non sapevo bene da che parte iniziare, fatto sta che quella tesina la scrissi non sul film, ma su noi studentelli, sulle nostre reazioni, sulle risate, gli sbadigli e tutto il resto.

Che è più o meno quello che sto facendo adesso, perché ieri il monologo di Benigni sui dieci comandamenti l’ho visto a spizzichi e bocconi. Ma oggi, prodigi della modernità e potenza dei socialcosi, è come se lo avessi visto tutto, dal primo minuto all’ultimo. E quindi non ti dirò di Benigni, o meglio non solo: ti dirò di quelli che l’hanno guardato. D’altra parte sono le due facce della stessa medaglia. Benigni, cosa vuoi, è sempre lo stesso: entra saltellando, un po’arrugginito nei movimenti, ma se hai visto gli ultimi concerti degli AC DC saprai che pure Angus Young non è più così sciolto quando fa quel suo saltello ripetuto – gli anni passano per tutti, in fondo. E poi, dopo aver pagato dazio a Buzzi e Carminati, inizia lo spettacolo vero e proprio.

Ora, io non so se una lezione di religione possa essere definita “spettacolo”: forse sì, basta intendersi sul significato che si dà al termine, chiarire che lo si usa con una certa quantità di dovuto rispetto. Ma il fatto è quello, è che pareva di stare al liceo (parlo per sentito dire, io ho fatto l’istituto tecnico commerciale) ad ascoltare un professore di religione. Uno bravo, si capisce: la classe non è acqua, e quando questa un po’ evapora rimane pur sempre la tecnica, come per i calciatori a fine carriera. Se sei Andrea Pirlo, a quarant’anni corri meno, ma i piedi sai usarli bene lo stesso.

Però, cara Left Wing, Benigni per me è la faccia meno interessante della moneta. Mi interessano quelli seduti sul divano. Mi interessano i dieci milioni di Pavlov che siamo tutti diventati. Perché guarda, ci sono alcuni argomenti sui quali niente, non c’è verso, ormai ognuno ha la sua posizione e niente e nessuno può fargliela cambiare. Politica (quanto meno a livello degli elettori: i politici la posizione la cambiano con l’abilità di una geisha), calcio, mare-o-montagna, Roma o Milano, Frecciarossa o Italo, Interstellar capolavoro o boiata epica. E la religione. Io oggi non sono riuscito a leggere una sola riga sullo spettacolo del professor Benigni che non fosse immersa nel pregiudizio, che non fosse una mossa dell’incontro di lotta fra credenti e atei, fra sostenitori dell’elevazione dello spirito e combattenti contro l’oppio dei popoli.

Niente di nuovo sotto il sole, in fondo: vedi la lista di cui sopra. E però: c’è un punto dello spettacolo in cui Benigni si sofferma su un aggettivo. Lo fa parlando del primo comandamento, quello del “io sono il signore Dio tuo”. “Tuo”, che visto dall’altra parte è “mio”. Ed è così, sempre, ogni sera che Dio o chi per lui manda in terra, è così a ogni talk show, a ogni editoriale, è “tuo” o “mio”, sempre, ma “nostro” mai. E quando Benigni calcava la mano su quel “tuo” e “mio” si avvertiva tutta la profonda inutilità del suo spettacolo: non perché questo fosse brutto, o sciatto, non perché lui sembrasse imbolsito, semplicemente perché si capiva che voleva parlare come fanno gli artisti, che dicono le cose che tutti sentono e nessuno sa esprimere, ma lo faceva a gente che non era interessata a quel che diceva. Forse, ma solo forse, a come. Che, insomma, non è abbastanza per stare ad ascoltare un professore spiegarti anche gli altri nove comandamenti.

Caro Pilu, capiamo il senso del paradosso, ma “profonda inutilità” ci pare lo stesso un giudizio un po’ ingeneroso. A meno di non prenderlo a rovescio, perché poi dove sta scritto che tutto debba avere un’utilità? Anche la cultura, persino la religione, pure Dio? Tra tanti spettacoli inutilmente superficiali, o solo superficialmente utili, la profonda inutilità di quello di Benigni non ci pare da buttar via.