Dopo qualche giorno, è facile raccogliere insieme le critiche principali rivolte alla performance di Benigni da parte di quelli che non la bevono. Sono quattro. La prima viene da quelli che dichiarano di avere amato il Benigni di una volta, e di non riconoscerlo più nel Benigni dell’altra sera: dov’è finito – si chiedono – il Benigni irriverente e sfrontato degli esordi, il toscanaccio che scherzava con i santi? Benigni che legge i dieci comandamenti è come Maradona che fa l’elogio di Blatter: non c’è più religione. O piuttosto ce ne sarebbe troppa, anche grazie alle fiction con preti e monache trasmesse dalla Rai. La seconda critica guarda al cachet del comico toscano: quattro milioni di euro. Decisamente troppo alto. Tutti quei soldi per parlare di morale, valori, amore, in tempo di crisi (con le famiglie che non arrivano alla quarta settimana, anzi alla terza): come si poteva starlo a sentire, senza notare l’ipocrisia di Benigni stesso e dell’operazione tutta intera? La terza critica riguarda l’utilità di programmi come quelli dell’altra sera. Presso che nulla: Pascal diceva che non s’è mai visto qualcuno convertirsi grazie a una prova filosofica dell’esistenza di Dio, e infatti dopo un po’ i filosofi hanno smesso di produrne, di simili prove. E invece con la televisione ancora c’è chi ci prova. Una simile perseveranza è quasi diabolica. La quarta critica è decisamente più raffinata e chiama in causa l’analfabetismo teatrale di Benigni, perché luci, regia, performance: non c’era un’idea di programma. Benigni non è Carmelo Bene, e non è nemmeno Eduardo. Naturalmente può dire quello che vuole, ma anche se fa milioni di ascoltatori non farà mai la storia del teatro (televisivo).
Ora, fateci caso: con simili critiche nel programma ci si entra appena. Ci si entra il tempo necessario per stabilire che Benigni non vuole fare più il blasfemo; o ci si limita a entrare nella scheda di produzione della Rai, prendendo nota del compenso e rifiutando per principio di stare a sentire chiunque guadagni simili somme; o non ci si entra affatto perché basta guardare le reazioni al programma per accorgersi che atei e anticlericali continuano a fare gli atei e anticlericali, e similmente quegli altri, dal canto loro (ancora Pascal: i miracoli sono fatti non per convertire, ma per condannare: la stessa cosa si potrebbe dire per la “spiega” di Benigni). Solo chi ha voluto criticare il programma dal punto di vista della messa in scena ha dovuto guardarlo con un po’ di attenzione in più, ma avrebbe potuto benissimo fare a meno dell’audio, e concentrarsi solo sulla posizione dei riflettori o sulle risate del pubblico.
Insomma: Benigni qualcosa ha detto. E l’ha detta in maniera convincente, per milioni di telespettatori e per i migliori teologi che abbiamo in Italia (il valdese Paolo Ricca, il cattolico Bruno Forte, l’ebreo Riccardo Di Segni). Forse è troppo sbrigativo chiedere agli spiriti critici di trovare qualcun altro in grado oggi di parlare di Dio in televisione meglio di come abbia fatto Benigni. Qualcuno, soprattutto, capace di fare credibilmente una cosa che la stragrande maggioranza delle persone, per non dire la totalità, non fa e non sospetta nemmeno che si debba fare: mettere da parte la questione dell’esistenza o inesistenza di Dio – e, corrispondentemente, la questione della credenza o della non credenza in Dio – proprio per poter parlare appropriatamente di Dio. In televisione. Alla Rai. In prima serata. Per un paio di ore a serata. I primi minuti della prima puntata sono serviti a questo, e sono stati memorabili: Dio c’è, può darsi anzi che si accomodi in poltrona e stia a sentire; e ora parlatene. Questo è quello che ha fatto Benigni: trovatene un altro capace di farlo.
Ma perché parlarne? Per convertire? Per educare? Per moralizzare? Ma niente affatto. Per parlare dell’uomo. Da sempre si parla di Dio per parlare dell’uomo: di che altro, sennò? E l’abolizione delle questioni teologiche dal novero delle questioni intellettualmente rispettabili ha il solo significato di trasformare radicalmente il discorso sull’uomo (è evidente infatti che Dio, esista o no, non è poco o punto spaventato dal silenzio su di lui). Ebbene, l’idea di fondo della lezione di Benigni, quella che passa attraverso il ragionamento sui comandamenti, sulle figure bibliche, sulle storie di Israele, è che quel discorso va fatto di nuovo, va fatto ancora. E allora diciamola tutta: dichiarare inesistente Dio è il meno; il più sarebbe inventarsi un altro discorso sull’uomo, all’altezza di quello che Benigni trova nella Bibbia. Per quelli che l’altra sera hanno apprezzato le doti affabulatorie di Benigni, non c’è bisogno di trovare nient’altro: le storie di Mosè (o, per i cattolici, di Gesù) funzionano ancora; per gli altri limitarsi a dire che Benigni ha ricevuto un compenso troppo altro, o che non è più il piccolo diavolo di una volta, è – mi sia permesso dirlo – abbondantemente al di sotto del minimo sindacale. E sicuramente al di sotto della lezione di Benigni.