Undici anni fa, dinanzi all’attentato islamista alla stazione di Madrid, il capo del governo spagnolo José María Aznar dichiarò che quella data, l’11 marzo 2004, occupava già il suo posto nella storia dell’infamia. Le bombe fecero quasi duecento morti e oltre duemila feriti: non c’è dubbio che il suo 11 settembre l’Europa lo ha avuto allora, ma non è possibile stabilire una gradazione sulla scala dell’atrocità. Certo è che l’immagine di uomini di trent’anni armati fino ai denti, a volto coperto e presumibilmente ben protetti da un giubbotto antiproiettili che uccidono a sangue freddo, uno dopo l’altro, anziani disegnatori satirici armati solo della loro matita, come è accaduto ieri nella redazione del giornale umoristico Charlie Hebdo, nella storia universale della vigliaccheria occupa il posto d’onore. Lo stesso che gli riserverebbe qualsiasi popolo della terra, in ogni epoca e ad ogni latitudine, sin dalla notte dei tempi: né Achille né Giulio Cesare avrebbero mai osato spingersi a tanto. Né Jago né Lady Macbeth sarebbero stati capaci di immaginare una simile cospirazione.
«Mio marito è caduto sul campo», ha detto oggi la signora Wolinski. È assurdo, se pensiamo che il suo campo era quello delle vignette e delle caricature, ma è così. Come ha scritto Peter Beinart sull’Atlantic, gli attacchi di ieri a Parigi, e da un altro punto di vista quelli alla Sony per il film demenziale su Kim Jong-Un, ridefiniscono non solo la nostra idea di chi sia il nemico, ma anche la nostra idea di chi siano i nostri. Oggi scopriamo che i nostri soldati più esposti sulla linea del fronte erano proprio i giornalisti e disegnatori satirici di Charlie Hebdo, e il fatto che loro lo sapessero benissimo e dovessero ricordarsene ogni giorno, al contrario di noi, non fa che accrescere il loro eroismo, e il nostro più che fondato senso di colpa per averli lasciati soli.
Qui però dobbiamo intenderci bene, prima che si riparta con le citazioni di Oriana Fallaci e tutto il consueto seguito di invocazioni a nuove crociate e guerre di civiltà, che continuiamo a giudicare radicalmente sbagliate. Lo diciamo con le parole scritte a caldo dal direttore di Libération: «I terroristi non se la sono presa con gli “islamofobi”, con i nemici dei musulmani, con coloro che non smettono di gridare al lupo islamista. Hanno preso di mira Charlie. Cioè la tolleranza, il rifiuto del fanatismo, la sfida al dogmatismo. Hanno preso di mira questa sinistra aperta, tollerante, laica, troppo educata senza dubbio, droit-de-l’hommiste, pacifica, indignata con tutti ma che preferisce farsene beffe piuttosto che infliggere loro il suo catechismo. Questa sinistra di cui tanto si fanno beffe Houellebecq, Finkielkraut e tutti gli identitari…».
La sinistra, quegli intellettuali progressisti che si ostinavano a ripetere che la guerra al terrore andava combattuta prima di tutto con le armi della cultura, scoprono oggi di essere loro in prima linea, ma di fronte a un nemico che non usa affatto le armi della cultura. Su quello stesso fronte scopriamo oggi di esserci tutti noi. Ma proprio tutti: per i nostri articoli, per i nostri post, per i nostri tweet. Dunque ciascuno di noi è chiamato a una scelta su dove schierarsi, e come. Le armi della cultura e della libertà di espressione saranno anche poca cosa di fronte alle armi automatiche, ma questa non è una buona ragione per deporle. Noi non le deporremo, né per alzare le mani in segno di resa, né per imbracciarne altre in segno di guerra.
E poi, a pensarci bene, non sono affatto poca cosa. Altrimenti non incuterebbero tanta paura al nemico. E forse non è un caso che il primo uomo ad andare incontro alla morte nel modo più sereno e pacifico, per non deflettere dai suoi principi e per non violare quelle leggi che sole potevano assicurare la convivenza civile, Socrate, sia ricordato innanzi tutto per la sua ironia. O il fatto che uno dei più valorosi soldati spagnoli che combatterono in difesa della cristianità nella battaglia di Lepanto, dove per le ferite perse l’uso di una mano, si chiamasse Miguel de Cervantes e alla storia sarebbe passato per quanto scrisse con l’altra: il Don Chisciotte, il primo romanzo satirico della letteratura occidentale, eterno antidoto contro tutti i fanatismi, i malriposti eroismi e ogni sorta di ubriacatura ideologica, religiosa o perfino letteraria.