Di fronte ai fatti di Parigi, in cui terroristi islamici hanno sterminato la redazione del giornale satirico Charlie Hebdo e sparso sangue di francesi laici, musulmani ed ebrei, il compito del teologo è allo stesso tempo semplice e complicato. Semplice perché per vocazione (in senso sia professionale sia spirituale) il teologo sa che la sola risposta di lungo periodo è il dialogo tra persone e lo scavo dei significati che si celano dietro a ogni parola che cita il nome di Dio – e nel caso degli assassini di Parigi quelle parole che citavano Dio come movente erano chiaramente blasfeme. Ma è anche una posizione molto complicata quella del teologo, che si sente obbligato a rendere ragione in pubblico non solo della propria teologia, ma anche della teologia degli altri (in una sorta di teodicea attualizzata in senso interreligioso) e specialmente di quella teologia che porta a uccidere in nome di Dio.
Le righe che seguono sono appunti attorno alla questione del ruolo della religione e del sacro in una società laica e pluralista, che non hanno nessuna pretesa di dare ricette pronte per la soluzione del problema dell’impatto delle lotte interne all’Islam sul mondo occidentale, ma tentano di sgombrare il campo da alcune semplificazioni che dominano il dibattito pubblico. La prima pericolosa semplificazione è quella di un’opposizione dicotomica tra una laicità tollerante e una religione intollerante. È un effetto deformante del caso francese, diventato la scena di una settimana di terrore, in cui il separazionismo tra Stato, chiese e religioni raggiunge un punto molto vicino all’idealtipo del sistema di separazione. Ma questa rappresentazione della dicotomia mente sul fatto che sono diversi non solo laicità e laicismo, ma anche sistemi e idee diverse di laicità: quella francese e quella italiana sono molto diverse. Vale la pena ricordare, poi, anche le evoluzioni interne allo stesso caso francese: dalla Rivoluzione alla Loi de Separation del 1905, alla Commissione Stasi del 2003-2004, fino al presidente Hollande che, la sera del 9 gennaio 2015, quando affermava che i terroristi che avevano ucciso in nome dell’Islam non erano veri musulmani, distingueva tra vero e falso Islam e faceva quindi un’affermazione teologica. Nella storia recente della democrazia occidentale, fare affermazioni teologiche ha fatto parte dei doveri costituzionali di un presidente-pontefice come quello degli Stati Uniti (da Thomas Jefferson a Obama) più che di un presidente della République Française: ma qualcosa sta cambiando anche in Europa, evidentemente.
In secondo luogo, vale la pena ricordare che alla separazione tra Stato e Chiesa nella storia occidentale non corrisponde una separazione tra religione e politica (negli Stati Uniti c’è separazione tra Stato e Chiesa, certamente non tra religione e politica). Ma c’è anche una contraddizione logica nel discorso su cristianesimo e laicità. Un’argomentazione come quella di Piero Ostellino sul Corriere della Sera di sabato scorso, che descriveva la nascita dell’Occidente come “uscita dal Medioevo, la separazione della politica dalla religione, la cancellazione del dominio della fede religiosa sulla politica e la nascita dello Stato moderno”, celava due richieste al cristianesimo che sono simultanee e incompatibili tra di loro: la Chiesa dovrebbe donare al mondo la distinzione (non separazione, che certamente non si verifica in Europa fino a tempi molto recenti) tra religione e politica, e allo stesso tempo scomparire una volta donata questa distinzione alle altre religioni. Al di là dell’articolo di Ostellino, credo che al campo liberal-conservatore, e alla visione della religione propagandata dagli “atei devoti”, il campo progressista dovrebbe poter opporre una tesi, se non alternativa, almeno propria.
Venendo alle altre religioni, c’è un nesso tra il modo in cui la teologia ha guardato alle religioni come pluralità delle vie per cercare Dio e il modo in cui i poteri pubblici in Occidente hanno affrontato la questione. Fino a soli cinquanta anni fa, per la teologia cattolica le altre religioni non esistevano in quanto tali, se non come accidente della storia e materia per i missionari, dato che il fatto religioso non cristiano esisteva solo in quanto fenomeno individuale e non collettivo (si parlava di ebrei, non di ebraismo; di musulmani, non di Islam, e così via). Al concilio Vaticano II, la questione della libertà di religione emerge come una questione di dignità umana (il titolo della dichiarazione votata e approvata dai vescovi al concilio nel 1965 sulla libertà religiosa è Dignitatis Humanae): il diritto alla libertà religiosa va rispettato (dalla Chiesa come anche dagli Stati) perché si fonda sulla dignità umana; il rispetto della dignità umana comporta il rispetto del sentimento religioso e delle sue espressioni, qualsiasi sia questa religione. Questo mi veniva alla mente ascoltando e leggendo commenti pubblicati nei giorni scorsi secondo i quali il più alto grado di libertà nel laico mondo occidentale sarebbe la libertà di insultare il sentimento religioso altrui.
La nozione di un diritto assoluto e illimitato alla libertà di espressione si avvicina molto all’idea che un certo tipo di pensiero “religioso” ha di sé. Non voler insultare le fedi altrui non è necessariamente autocensura, né effetto della paura del terrorismo. Ci sono autocensure buone e cattive. Il rispetto della dignità delle persone può e in certi casi deve condurre ad autocensure. La teologia cattolica progressista si pose cinquanta anni fa la questione di come meglio comprendere le esigenze della dignità umana in un mondo concepito come popolato da un genere umano uno e unico: la cultura politica progressista dovrebbe fare qualcosa del genere, di fronte all’appropriazione della questione religiosa (e non per la prima volta) da parte del conservatorismo politico.
La questione di fondo è evidentemente il ruolo della religione nello spazio pubblico. Se è vero (ed è vero) quel che ha detto il presidente francese Hollande, ovvero che gli attentatori non erano veri musulmani, allora è interesse supremo della laica Repubblica Francese (e di tutti gli Stati) far sì che i musulmani immigrati siano veri musulmani. In altri termini, l’idea che la religione non debba avere una dimensione pubblica ma debba restare confinata nello spazio individuale/personale non è sbagliata teologicamente, ma storicamente. Parafrasando il discorso del premier norvegese Stoltenberg dopo la strage di Utoya, mi verrebbe istintivo dire “dopo i fatti di Parigi risponderemo con più teologia, più cultura religiosa”. Un maggiore e diverso ruolo per la religione nello spazio pubblico non significa necessariamente uno Stato meno laico.