È sufficiente leggere la stampa tedesca delle ultime settimane per rendersi conto di quanto sia aumentato il grado di politicizzazione del dibattito pubblico europeo. La Germania – o forse sarebbe più appropriato dire: una parte delle sue classi dirigenti – sta mostrando una preoccupante regressione verso il suo stato post-bellico, quando era un gigante economico dai piedi d’argilla. Lo si è visto con l’atteggiamento tutt’altro che benevolo tenuto la settimana scorsa nei confronti della comunicazione che la Commissione europea ha fatto sull’interpretazione flessibile del patto di stabilità. E lo si vede – in misura addirittura superiore – dalla violenza con cui viene sistematicamente attaccata l’ipotesi sempre più concreta che la Bce dia il via al cosiddetto quantitative easing, ovvero all’acquisto massiccio, seppur indiretto, di titoli del debito pubblico dei paesi membri. La Bundesbank, che di questo minoritario ma assai influente sottoinsieme della classe dirigente tedesca è forse l’avamposto più agguerrito, da mesi sta usando tutte le occasioni che le si presentano davanti per criticare la linea prevalente all’interno del board della Bce. Lo fa in maniera sguaiata, nella speranza di trovare sponde all’esterno e puntando una credibilità che – al di fuori dei confini nazionali – non possiede più. Troppi gli errori e ormai fin troppo evidenti gli interessi squisitamente nazionali che stanno dietro una furia ideologica che ha ben pochi precedenti.
Sin dallo scoppio della crisi la banca centrale tedesca si è contraddistinta per il ruolo di zelante custode dei trattati europei di fronte alla volontà riformatrice che ha cominciato a serpeggiare altrove. Una posizione che ha senza dubbio una sua legittimità, visto che il trattato di Maastricht è un vestito ritagliato su misura per il gigante tedesco, ma che sarebbe stato meglio accantonare per almeno due ragioni. La prima è che furono proprio i tedeschi i primi a violare le regole europee, sottraendosi alla procedura di infrazione della Commissione europea con la complicità non del tutto disinteressata di Francia e Italia. La seconda è che, con il procedere della crisi, trattato di Maastricht e patto di stabilità, che avrebbero dovuto costituire la cintura di sicurezza dell’Unione europea, si sono rivelati due straordinari catalizzatori di profezie di sventura destinate ad autoavverarsi contro la stessa eurozona. Il messaggio – scritto non nelle leggi economiche, ma nei trattati – che una crisi finanziaria sarebbe stata sempre trattata come problema di un singolo paese, e non sarebbe stata mai affrontata come un problema sistemico, ha reso razionale speculare contro i debiti sovrani europei e – per un certo periodo – scommettere addirittura su una rottura della stessa unione monetaria.
Questo spiega il paradosso per cui sono state le resistenze al salvataggio della Grecia in nome dei trattati a scatenare gli attacchi contro l’eurozona. In quei difficili mesi nulla hanno potuto innumerevoli manovre fiscali restrittive, riforme delle pensioni o del mercato del lavoro, di fronte all’esplosione degli spread. A calmare i mercati che ormai sembravano fuori controllo sono bastate tre parole, pronunciate da Mario Draghi il 27 luglio del 2012, durante una conferenza stampa: whatever it takes. Non una mossa. Non un intervento concreto di politica monetaria. Solo tre parole, seguite da un monito altrettanto chiaro: “Credetemi, sarà abbastanza”. Un capolavoro politico che fra qualche anno ritroveremo sicuramente nei libri di testo di economia monetaria. Nessuno speculatore assennato scommetterebbe mai contro un banchiere centrale che promette di usare l’artiglieria pesante per difendere la moneta unica minacciata dagli attacchi speculativi verso il debito sovrano di questo o quel paese membro.
Da quel momento la Bce non è stata con le mani in mano. Ha cercato di rispettare il suo mandato, avviando – con alterni successi – una serie di misure non-convenzionali. La decisione di avviare il quantitative easing è soltanto l’ultimo passo di una lunga serie. I mercati così come le altre istituzioni di politica monetaria sembrano aver già dato per certo l’intervento. La scelta della Svizzera di lasciare il franco libero di fluttuare non è altro che una conferma di quanto ormai sia data per scontata la decisione della Bce. Eppure anche stavolta la Bundesbank ha cercato di bloccare l’operazione, chiedendo che ciascuna banca centrale acquisti i titoli del suo paese, in modo che eventuali perdite derivanti dall’insolvenza degli stati vengano scaricate sugli istituti di emissione nazionali. Una mossa che – secondo la stragrande maggioranza di esperti, economisti e banchieri centrali – darebbe un segnale chiaro che la Bce sta accettando una prossima rottura dell’area euro. Segnale che basterebbe da solo a rendere molto più probabile un simile scenario. Si tratterebbe di una sorta di whatever it takes al contrario.
Anche stavolta gli argomenti della Bundesbank fanno breccia nell’opinione pubblica tedesca, ma sono ben poco solidi. La banca centrale tedesca fa finta di dimenticarsi che se gli Stati Uniti sono stati l’epicentro mondiale della crisi finanziaria, la Germania ne è stata l’epicentro europeo. La Bce, che ora dovrebbe rimanere immune da acquisti di titoli di stato per non scaricare sul ricco Nord Europa le eventuali perdite dei paesi mediterranei, durante la fase iniziale della crisi ha acquistato carta straccia contro euro veri da svariati istituti privati di dubbia rilevanza pubblica, in larghissima parte di provenienza tedesca. Quella spazzatura è finita anche sul conto di paesi come l’Italia, senza che nessuna voce si levasse a difesa dei poveri cittadini italiani costretti ad accollarsi pro-quota le perdite altrui. Non si capisce perché proprio adesso si debba avviare la raccolta differenziata.
Quel che è peggio, la Bundesbank sembra essere la più tenace oppositrice alla generalizzata presa d’atto che l’architettura istituzionale partorita a Maastricht non funziona. Tre sono i suoi storici difetti. Il primo è che dà troppo peso ai bilanci pubblici in un’ottica di breve periodo, e troppo poco agli stock di debito in un’ottica di lungo periodo. Il secondo è che in recessione i governi sono spinti a fare politiche pro-cicliche, che aggravano la crisi invece di contrastarla. Il terzo è che la dimensione di controllo e protezione del rischio sistemico è del tutto assente: è senza dubbio necessario che ciascun paese membro rispetti le regole di disciplina fiscale in casa propria in tempi ordinari, ma è altrettanto necessario che ci sia qualcuno che pensi per tutti al di sopra di tutti (almeno) in tempi straordinari. Sui primi due aspetti Commissione, Parlamento e Consiglio sembrano aver imboccato da qualche mese la strada giusta. La recente comunicazione sulla flessibilità è lì a dimostrarlo. Sul terzo, in assenza di meglio, ci sta pensando Mario Draghi. Nonostante la Bundesbank.