Il Jobs Act è stato forse l’atto legislativo più rilevante degli ultimi mesi. Si è trattato di un passaggio politico particolarmente delicato, peraltro non ancora compiuto, in mancanza di tutti i decreti attuativi. Ma non c’è bisogno di attenderli per discutere alcuni effetti della riforma, e di come eventualmente correggere il tiro, a partire da due dati di fatto. Il primo è che l’idea secondo cui una maggiore flessibilità in uscita sarebbe in grado di incoraggiare investimenti e occupazione su scala aggregata è quanto meno azzardata e poco supportata dai dati disponibili. Il secondo è che in Italia l’esperimento di abbattimento del cosiddetto costo di disattivazione dei posti di lavoro non è una novità introdotta dal Jobs Act. La proliferazione di contratti atipici degli ultimi quindici anni ha creato forme di assunzione in cui, complice la durata limitata del rapporto di lavoro, il costo di disattivazione (monetario e non) è praticamente nullo. Casomai bisognerebbe riconoscere che su questo fronte il Jobs Act ha cercato – pur fra qualche contraddizione – di affrontare il problema della precarietà, da un lato riducendo la pletora di contratti atipici e dall’altro introducendo una forma di tutela crescente. Ma questa scelta resta un second best che – se non opportunamente tarata in termini di costo del licenziamento per l’impresa – rischia di non creare un’apprezzabile inversione di tendenza rispetto a quanto osservato negli ultimi tre lustri, ovvero una creazione di posti di lavoro in massima parte a basso rendimento, con un elevatissimo turnover e senza crescita del prodotto interno lordo.
Se l’obiettivo del Jobs Act era rilanciare crescita, produttività e occupazione, la strada da seguire era un’altra. Invece di agire unicamente sul costo di disattivazione, sarebbe stato preferibile intervenire soprattutto sull’altro elemento che contribuisce alla scelta di assumere o meno un lavoratore, ovvero il suo rendimento. In parte questo è previsto dal Jobs Act, attraverso un ripensamento dei servizi per la formazione. Tuttavia andrebbe ricordato che il rendimento di un lavoratore non dipende soltanto dalla sua formazione di base, ma anche da altri fattori: la tecnologia produttiva, il costo di accesso ai finanziamenti, le condizioni macroeconomiche in cui le imprese si trovano a operare, la qualità del management aziendale. Proprio quest’ultimo elemento rende reciproca l’incertezza del rapporto di lavoro. All’incertezza dell’imprenditore sulla effettiva qualità del lavoratore, si aggiunge quella del lavoratore, che deve effettuare un investimento specifico in conoscenza sul suo posto di lavoro, e quindi poco reversibile.
Così come accade per l’imprenditore, anche il lavoratore non conosce perfettamente la qualità del suo datore di lavoro nel momento in cui prende servizio. Tale incertezza può influire negativamente sul suo rendimento e – allo stesso tempo – anche sul mantenimento del rapporto di lavoro. Si tratta di un punto estremamente rilevante che chiama in causa la scelta condotta con il Jobs Act di ridurre – attraverso l’eliminazione del reintegro del lavoratore e l’introduzione di un mero indennizzo monetario – il costo di disattivazione in presenza di motivazioni di natura economica. L’emergere di ragioni economiche accertabili per interrompere un rapporto di lavoro può essere infatti causata da fattori esterni al di fuori del controllo dell’impresa, ma anche da fattori interni dovuti a scelte sbagliate del management. Quest’ultima possibilità riduce di molto il valore atteso dell’investimento specifico effettuato dal lavoratore, e quindi il suo rendimento effettivo. Perciò costi di licenziamento molto bassi possono creare i presupposti per un risultato socialmente negativo, in cui i comportamenti “negativi” di imprenditore e lavoratore si giustificano vicendevolmente: da un lato, visti i bassi costi di licenziamento, per gli imprenditori vi è un incentivo a tenere comportamenti che possono portare alla distruzione futura di posti di lavoro. Dall’altro, visti gli alti rischi di perdere l’investimento effettuato, i lavoratori tendono a rispondere riducendo la formazione specifica e quindi diminuendo il proprio rendimento.
Non c’è bisogno di spiegare perché questo è il risultato meno desiderabile per l’intera collettività. Per questa ragione, in presenza di licenziamenti per ragioni economiche, quasi tutti i paesi posseggono un sistema che consenta di discriminare fra quelli dovuti a fattori esterni, che possono richiedere una ristrutturazione produttiva, e quelli dovuti a scelte sbagliate del management, che invece dovrebbero determinare un cambio della guida operativa dell’azienda se non addirittura della proprietà. Nelle cosiddette economie liberali di mercato, tipiche del mondo anglosassone, questo compito è svolto più o meno diligentemente dai mercati finanziari e dalle borse valori. Nelle economie a capitalismo coordinato, tipiche dell’Europa continentale, alle relazioni competitive e alle valutazioni dei mercati si sono sostituite soluzioni diverse. In Italia, fino a poco fa, la soluzione prescelta era data dall’articolo 18 per i fattori interni e dalla disciplina sui licenziamenti collettivi per quelli esterni.
Sarà pure vero che la giustizia del lavoro non sembra più capace di svolgere questo compito con quella precisione, rapidità e competenza ormai richieste in una economia globalizzata e sempre più interconnessa. Ma ora il nostro paese si ritrova privo di qualsiasi istituzione capace di distinguere fra fattori esterni e fattori interni, con pesanti effetti sia redistributivi (il rischio d’impresa è interamente scaricato sul lavoratore) che allocativi (incentivo perverso sia per l’imprenditore che per il lavoratore, con ricadute negative per tutta la società). Se l’obiettivo del Jobs Act era spingere il sistema produttivo italiano verso settori tecnologicamente più avanzati, capaci di creare posti di lavoro ad alto rendimento e con elevate tutele soprattutto interne, la previsione per il momento non può essere ottimistica.
Una via d’uscita c’è, ed è quella di completare il Jobs Act con una riforma della corporate governance delle nostre imprese, in grado di attribuire ai vari stakeholder poteri di negoziazione e controllo sulle decisioni imprenditoriali. Il modello tedesco, spesso chiamato in causa a sproposito, si basa proprio sulla rappresentanza dei lavoratori negli organi in cui si prendono decisioni strategiche e si scelgono i manager che devono metterle in atto. Questa originale forma di corporate governance non solo permette di discriminare fra fattori esterni e interni, ma ha anche aperto la strada ad una flessibilità che – sia dal punto di vista microeconomico, sia da quello macroeconomico – ha caratteristiche assai diverse da quella perseguita nel nostro paese. Viceversa, in assenza di ulteriori interventi, il rischio è che il Jobs Act si configuri come l’ennesimo aiuto a un modello produttivo italiano che, nell’ultimo ventennio, non può certo fregiarsi di grandi successi.