La prima volta che ho sentito parlare dell’idea di trasformare il Quirinale in un museo è stato circa due anni fa, nel 2013, poco prima della nota vicenda che condusse alla rielezione di Giorgio Napolitano. La proposta era di fare del palazzo del Quirinale un grande, grandissimo museo della cultura italiana o, addirittura, un formidabile polo turistico. Per diversi mesi l’idea ha continuato a scorrere ipogea per riemergere in occasione delle dimissioni di Napolitano e dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica. E’ la casa degli italiani, si dice, e quindi gli italiani devono potervi entrare liberamente. In Spagna il museo del Prado accoglie milioni di persone e – si aggiunge – anche il Palazzo Reale di Madrid è regolarmente aperto alle visite dei turisti. Senza trascurare che il Louvre, già residenza reale fino al trasferimento della corte di Luigi XIV a Versailles nel 1682, è il museo che, secondo taluni, tutti gli altri musei aspirano a diventare.
In ragione di questi precedenti illustri, perché non trasformare anche il Quirinale in un museo? I centodiecimila metri quadrati dell’ex palazzo papale basterebbero per farci rivaleggiare con i grandi musei esteri, quelli che hanno migliaia di visitatori, permettendoci di entrare, finalmente, nella ambitissima classifica dei musei più visitati nel mondo. E poi si risparmierebbero molti soldi – dicono gli esponenti dell’intellighenzia nostrana – che oggi servono per mantenere il palazzo come sede del capo dello stato. Ecco fatto, tre o quattro piccioni belli grassi con una fava sola: avremo anche noi il nostro bel museone, ridimensioneremo il presidente della Repubblica in una residenza meno ingombrante, risparmieremo tanti soldi e apriremo un museo con moltissimi visitatori che farà guadagnare altrettanti soldi.
Come spesso accade con le idee geniali, anche questa lascia intravedere alcune falle. In Italia, infatti, ci sono già oltre quattromila musei, senza contare siti archeologici, monumenti musealizzati, biblioteche storiche, chiese, antichi palazzi, archivi. A Roma avevamo censito, quindici anni fa, duecentoventicinque siti tra pubblici e privati: dal Museo della pasta alimentare al Colosseo. Di questi, i cinque più popolari accoglievano da soli più dell’85 per cento dell’intera messe di visitatori, mentre i restanti duecentoventi musei si spartivano il residuo 15 per cento. Tanta, tantissima offerta, di qualità altissima e variegatissima cui fa riscontro, però, poca curiosità da parte del pubblico.
I musei e i siti romani sono aperti, in genere, quasi tutto il giorno e quasi tutti i giorni dell’anno, mentre altri possono essere visitati previa prenotazione. Indirizzi e orari sono facilmente reperibili on line. I prezzi sono modici e talvolta l’ingresso è gratuito. Ma gli italiani, è noto, sono tra i più abulici in Europa in tema di consumi culturali e ciò certamente non a causa della scarsa offerta o della carente qualità (qui da noi è tutto very bello). Anche perché – è utile ricordarlo – al crescere dell’offerta non necessariamente la domanda cresce in modo proporzionale. Perché se non ci sono serie politiche di sostegno al consumo, di educazione al patrimonio, di formazione dei nuovi pubblici, di accoglienza, non attecchisce il desiderio e non scatta l’esigenza di consumo culturale.
Magari – dicono – con questa iniziativa si cambia la tendenza e gli italiani si accorgeranno improvvisamente di quanto sia bello andare per musei. E qui, però, si pone un altro problema. Perché va bene fare il museo della Civiltà italiana o della Cultura italiana, ma mi domando – io, sempliciotta – che ci mettiamo dentro? Anche senza scomodare coloro che hanno spiegato che la cultura non è un bene ma un processo (ed esporre un processo è complicato), non c’è dubbio che riepilogare tre o quattromila anni di storia di un popolo e di un territorio non è semplice: selezionare ciò che ha costruito la nostra identità non è cosa da poco, almeno per noi umani votati al dubbio metodico.
Ci mettiamo Ötzi o la tomba “della vedova” dalla necropoli di Ponte San Pietro, oppure entrambi? Poi, la Tomba François di Vulci e il sarcofago degli sposi, gli affreschi della villa di Livia e un paio di insule trasferite da Pompei. Un po’ di Giotto e un po’ di Nicola Pisano. Molti disegni di Leonardo, Michelangelo di sicuro e poi anche qualche codice cinquecentesco. E via via fino ad arrivare al secolo scorso: i 78 giri di Caruso ma anche i discorsi del Duce e i quaderni di Gramsci e alcuni oggetti della cultura contadina e preindustriale, La presa di Roma girata da Filoteo Alberini nel 1905, ma anche La dolce vita. E perché non le locandine dei film di Natale? E il design? Abiti di alta moda, industria del mobile. Ma non tralasciamo la poesia. Ohibò! ho dimenticato Dante, Petrarca e Boccaccio… e Cecco Angiolieri? E l’Ariosto? E Cielo d’Alcamo? E tutta la letteratura latina? E la cultura giuridica antica? E la tecnica costruttiva antica? E la medicina? E gli erbari? E la classe operaia? Le memorie delle guerre di indipendenza? E il papa? E le religioni precristiane? E se ci metto i 33 giri di Claudio Villa, perché non le foto erotiche di fine Ottocento? E “sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti”?
Ecco, la sensazione che assale noi umani è quella di allestire una cosa simile all’appartamento di una persona affetta da disposofobia. Un accumulo compulsivo di cose che, comunque, non riescono in alcun modo a rappresentare, neanche confusamente, la cultura o la civiltà italiana (qualsiasi cosa si intenda con essa). Perché premessa di un museo è la sua collezione, vale a dire una scelta di oggetti, una selezione di cose che devono rappresentare l’idea che il collezionista intende trasmettere. Quando il Louvre diventa il rivoluzionario Muséum central des Arts, viene fatta una scelta, dispotica per quanto attenta, delle opere da esporre e di quelle da scartare o da collocare nei musei provinciali. E quando l’esercito napoleonico preleva migliaia di opere dai paesi conquistati, lo fa secondo precise indicazioni. La collezione è essa stessa il prodotto di una determinata cultura, di una definita visione del mondo, addirittura di un’ideologia: essa non sarà mai neutrale o imparziale e tantomeno oggettiva. E da questa trappola non si sottrarrebbe neanche il nostro museo della civiltà italiana che nascerebbe già segnato – e non potrebbe essere altrimenti – dal marchio di una faziosità da MinCulPop.
E non finisce qui. Perché, se è vero che la cultura (e a maggior ragione la civiltà) è un processo, un museo conserva ed espone oggetti (e se invece è di un museo virtuale che stiamo parlando, non si comprende perché dovrebbe essere collocato in un edificio reale di centodiecimila metri quadrati). Nel nostro caso, si tratterebbe di oggetti già esposti e fruibili, che appartengono a collezioni preesistenti, che si trovano, ab origine o meno, in un contesto, dal quale, è evidente, dovrebbero essere strappati: facendo né più né meno quello che fece Napoleone all’inizio del XIX secolo.
Io ho la sensazione che sindaci, soprintendenti, studiosi, cittadini non sarebbero molto soddisfatti all’idea di vedersi sfilato un quadro, uno strumento musicale antico, un oggetto della cultura materiale, una statua, un documento d’archivio, affinché sia esposto in un ulteriore museo (per quanto molto, ma molto grande). Senza poi considerare che la legge italiana di tutela vieta lo smembramento delle collezioni. Tuttavia le leggi, si sa, si possono sempre cambiare. Più complesso sarebbe mutare lo spirito campanilista di molti italiani. O forse si pensa di attingere ai favolosi e favoleggiati depositi dei musei nei quali – si dice – sarebbero conservate opere di rilevanza addirittura maggiore di quelle esposte? Perché se è di questo che si tratta, è l’ennesima illusione. I depositi conservano opere in attesa di restauro, opere che i musei espongono a rotazione, opere minori (i quadri degli allievi degli artisti minori, per intenderci). Perché la civiltà italiana ha prodotto un numero enorme di oggetti: non tutti bellissimi, non tutti esemplari, ma comunque testimonianze del nostro passato. Un po’ come le nostre fotografie: alcune, belle o significative, le incorniciamo e le appendiamo al muro, altre le conserviamo nella memoria del pc o in una scatola. Ma, a meno che non siano compromettenti, non le gettiamo via. Ci serviranno per ricordare il matrimonio di una cugina, un pranzo particolare, un ex fidanzato molesto. Se proprio è necessario, ne facciamo una copia e la regaliamo a un amico, ma non ce ne liberiamo mai (la selezione la faranno casomai i nostri eredi).
E ora parliamo di costi e di organizzazione. Perché forse non tutti sanno che il Louvre ha un budget di circa 200 milioni di euro di cui metà proviene direttamente dalle casse dello stato e l’altra metà dai biglietti, dai servizi aggiuntivi, dalle donazioni dei mecenati. E il personale è pagato dal ministero della Cultura. Si tratta – anche considerando solo il finanziamento statale – di una cifra che quasi eguaglia l’intero stanziamento per i musei statali italiani. Da quell’investimento, è evidente, scaturisce una favolosa ricchezza – materiale oltre che immateriale – per la città di Parigi, per la Francia tutta, per il prestigio francese. Ma dietro, prima e tutto intorno a quell’investimento ci sono politiche, tradizione, formazione, cultura, civiltà, programmazione, organizzazione, professionismo, valorizzazione del lavoro: tutto quello che sembra mancare, o almeno scarseggiare, in Italia.
Mi e vi risparmio le considerazioni di cui sono pieni i quotidiani sulla necessità di una svolta pauperistica della presidenza della Repubblica (facile predicare il pauperismo con gli incarichi degli altri) la cui sede dovrebbe essere trasferita in altro palazzo del centro di Roma (bontà loro). E neanche mi avventuro a chiedere quale dovrebbe essere il palazzo e se è stato calcolato il costo di tale trasferimento. Certo, sarebbe bello se la presidenza della Repubblica decidesse di aprire con maggiore frequenza il palazzo al pubblico e se esso fosse tutto fruibile gratuitamente. Ma di qui a far traslocare la sede della presidenza della Repubblica ce ne passa, specie in ragione di un progetto vago, vanaglorioso e sinceramente fuori dal tempo. E anche perché il vero museo della civiltà e della cultura italiana già c’è: è l’Italia tutta intera.