Come imparammo ad amare la guerra

Torna la grande politica. Cioè: torna la guerra. Si tratta solo di scegliere dove la si vuol fare: se ad est, in Ucraina, oppure a sud, in Libia. Fermo restando che nostri soldati sono impegnati in missioni internazionali anche in altri scenari, e che fra Siria e Iraq c’è forse spazio per succulente operazioni di terra a fianco degli americani, se solo Obama mostrasse finalmente i muscoli. Insomma: un ricco bouquet.

Come in ogni guerra che si rispetti – figuriamoci quando a disposizione ce n’è più d’una, c’è però da considerare il fronte interno. Sul fronte interno, infatti, c’è bisogno di rendere concettualmente pensabile, quindi possibile, infine, auspicabile, la mobilitazione, impegnandosi quindi in una gigantesca gigantomachia di luoghi comuni. Per cominciare – si comincia sempre da lì – bisogna prendersela con la Costituzione italiana, che avete voglia a riformarla: ancora conserva, all’articolo 11, quell’ipocrita affermazione sul ripudio della guerra, la quale obbliga a faticosi giri di parole, a fiacche parafrasi in inglese, e comunque a risoluzioni politicamente corrette e ufficialmente anodine pur di mandare un po’ di soldati in giro per il mondo (e a volte – bisogna dirlo, persino con quel ridicolo caschetto blu in testa). Poi bisogna cercare di suscitare un minimo di orgoglio nazionale nel paese, rimproverando gli italiani che le guerre non le sanno e non le vogliono fare, ricordando loro che quando le fanno le perdono, oppure le cominciano da una parte per finirle immancabilmente dalla parte opposta.

Tutto ciò lo si dirà non per fiaccare il morale delle truppe, ma al contrario: per esortare i politici imbelli o rompere una buona volta con gli indugi del passato, a rottamare l’Italietta e esortarla ad occupare finalmente un posto al sole nel mondo (ma a proposito: com’è potuto accadere che una retorica nazionale, addirittura imperiale, diventasse una soap opera di successo? Si può fare del citazionismo e dell’ironia su quanto vi è di più sacro al mondo, la Patria? Non è una prova indiscutibile della decadenza morale del paese?). Infine, non bisogna dimenticare di citare qua e là Osvald Spengler e il tramonto dell’Occidente, o Friedrich Nietzsche e la femminilizzazione dell’uomo europeo; bisogna altresì aggiungere qualche preoccupata riflessione sul decremento demografico e la rilassatezza dei costumi morali e sessuali, e completare il tutto con l’anestetizzazione spettacolare che impedisce all’opinione pubblica di guardare in faccia la morte e accettare che qualche soldato (uno? Cento? Mille?) muoia valorosamente in battaglia. Punto sul vivo, l’italiano medio si alzerà dalla poltrona per iscriversi di corsa al battaglione San Marco.

Naturalmente, i toni e gli argomenti sin qui suggeriti vanno conditi con qualche spezia che renda più saporito il tutto, e lo adatti ancora meglio al dibattito politico nostrano. Il primo condimento è dare addosso all’Onu e a qualunque organismo internazionale provi a interporsi, tenti arbitrati, cerchi appesament (ricordarsi – mi raccomando! – di evocare lo spirito di Monaco). Viene poi la polemica contro i veleni del pacifismo e dell’internazionalismo, che fiaccano – è di tutta evidenza – lo spirto guerrier ch’entro ci rugge. Oggi questa polemica è, per la verità, meno efficace di una volta. La si può dunque sostituire con quella contro l’europeismo di facciata, che funziona ancora alla grande. Il secondo condimento è invece la polemica contro la tradizionale trascuratezza, l’ignoranza e quasi la vergogna di confessare un interesse nazionale, anzi: un sano egoismo nazionale. La colpa la si può addossare a uno degli evergreen – chiamiamoli così – che non mancano mai: la miope cura del «particolare», o lo scarso attaccamento alla Patria, o la nostra debole statualità, oppure l’8 settembre, o i comunisti, o il fatto che siamo un paese di mammoni, o il fatto che siamo un paese cattolico, o infine il fatto che siamo più mediterranei che europei, e quindi indolenti e pigri: in un caso o nell’altro, la guerra non la sappiamo fare. E, quel che è più grave (almeno per un intellettuale che si rispetti), non la sappiamo nemmeno pensare. Ci manca infatti quella cosa che fa grande un pensatore: il realismo politico. Bisogna dunque che vi dica in conclusione due parole sul perché il realismo politico fa grande un pensatore.

È semplice. Il realista politico è colui che guarda in faccia la realtà e che – come si può dimostrare – ha ragione a priori. Dato infatti un qualunque argomento che sia addotto per sostenere una tesi diversa da quella difesa dal realista, il realista politico la riporterà bruscamente alla realtà, che può essere così definita: reale è ciò che è di un grado almeno più sordido di come l’interlocutore l’avrà rappresentato. In questo modo, dell’opinione altrui si potrà sempre dire che in realtà non è che un pannicello caldo per coprire la verità. Non è necessario che il realista politico sia del tutto consapevole che la forma finale del suo pensiero è la seguente: gli uomini non sono che bestie sanguinarie (o, in materia sessuale – altro terreno elettivo per l’esercizio del realismo – macchine per la riproduzione: l’amore non esiste, eccetera eccetera). Si vede subito che non c’è obiezione possibile a una tesi del genere, perché il solo fatto di obiettare – il solo fatto di aprir bocca, discutere, distinguere – non può non apparire come una vana e bugiarda strategia diversiva. Un non voler guardare in faccia la realtà.

Il pensatore che pensa in grande ha vinto. E però l’articolo che lo descrive, cioè quello che avete letto, deve rivelare infine, a malincuore, la sua assoluta povertà e vuotaggine. Delle guerre citate in esergo, non contiene infatti un’analisi che è una: combattere con chi, perché, con quali strategie, quali alleanze, per quali possibili scenari, con quali analisi dei costi e degli eventuali benefici. Nulla. Bazzecole. Aria fritta. Tentativi di prendere tempo. Il pensatore che pensa in grande ha sciorinato i suoi argomenti e ha vinto. E può passare all’editoriale successivo.