La parola austerità è al centro del dibattito politico europeo: predicata a gran voce dalle élite protestanti del continente come regola di virtù etica, è vissuta dalle popolazioni dell’Europa cattolica e ortodossa come sinonimo dell’ipocrisia dello «spirito del capitalismo», che ammanta di paroloni moralisti una banale attività di recupero dei crediti, per altro concessi con modalità da strozzini. Nella fatica del suo costruirsi l’Europa è tornata a una disputa cinquecentesca, quando i principi tedeschi e olandesi tuonavano contro la lussuria e la depravazione delle corti rinascimentali italiane, francesi e spagnole, e queste ultime piagnucolavano per l’assenza di un «imperio» politico, in grado di mettere in riga gli appetiti dei mercanti del Nord.
Il termine viene dal mondo classico: si origina dall’aggettivo greco antico austērós che vuol dire ‘duro, secco, amaro’ (la base è corradicale all’inglese sear ‘seccare’), opposto a glukús ‘dolce’; da qui il termine è passato in latino (austerus), dove si è formato anche il sostantivo austeritas, ‘asperità’, ma anche, ‘rettitudine, rigore morale’; nel Medioevo la parola è stata adottata come latinismo (con una forte connotazione religiosa) in italiano e francese, e da qui in inglese fin dal Trecento. Come mai continua a circolare nel linguaggio politico moderno? La risposta va cercata nell’Inghilterra del 1942: il paese era allora rifornito da mare dagli Stati Uniti, e stremato dalla guerra sottomarina. Il governo di Winston Churchill, che aveva promesso alla nazione lacrime e sangue, procedette al razionamento dei generi alimentari e predicò un abbigliamento essenziale (un esempio è nella lunga inquadratura iniziale della Signora Miniver, lo splendido film di propaganda bellica realizzato da William Wyler, uscito proprio in quell’anno): la parola austerity divenne lo slogan del momento.
Esso sopravvisse alla guerra e al clamoroso ribaltamento di fronte della storia britannica avvenuto con le elezioni politiche del 1945 vinte dai laburisti: il governo guidato da Clement Attlee infatti affrontò la grave crisi di capitali che caratterizzò il dopoguerra mediante il contenimento dei salari e un fisco restrittivo (ma con progressività delle imposte); in questo modo trovò le risorse per avviare una colossale politica di investimenti pubblici. Statalizzò le industrie di interesse nazionale, realizzò un grande piano di edilizia popolare pubblica, garantì a tutti gli inglesi cure e ospedali di prima qualità con una riforma sanitaria esemplare, fece un massiccio investimento nell’istruzione statale, riuscì a raggiungere il pieno impiego e ad avviare la decolonizzazione con l’indipendenza all’India. Il cancelliere dello scacchiere Stafford Cripps fu il grande artefice di ciò che i contemporanei battezzarono «Age of Austerity» (non senza un certo sarcasmo), con l’opposizione sia dei conservatori sia dell’estrema sinistra, e che noi ricordiamo più sobriamente come «Welfare State».
Contrariamente a quanto si può pensare furono i liberali tradizionalisti quelli che allora tuonarono più forte contro l’austerity; in Italia il liberale Luigi Einaudi, anche dopo la sua elezione alla presidenza della Repubblica, in uno dei suoi tanti interventi in cui cercava di frenare la riforma agraria voluta dalla Democrazia cristiana, se la prese nel 1948 col «pericolo» inglese, da lui considerato un «caso comico», dove «le imposte (sul reddito, complementare o surtax e di successione) costringono forzatamente all’austerità».
Qualcosa di simile avvenne in Italia tre decenni dopo: la crisi petrolifera provocò nel 1973 una politica volta al risparmio energetico, che fu propagandata con l’anglicismo austerity; ma nel 1977 furono il Partito comunista la Cgil a costruire su di essa la solidarietà nazionale, grazie alla quale l’Italia conobbe la sua più importante stagione di benessere e di riforme, tra cui una riforma sanitaria ispirata proprio a quella inglese. La crescita incontrollata del debito pubblico italiano non avvenne allora ma nei decenni successivi, governati dagli emuli della signora Thatcher.
«L’austerità a seconda dei contenuti che ha e delle forze che ne governano l’attuazione può essere adoperata o come strumento di depressione economica, di repressione politica, di perpetuazione delle ingiustizie sociali, oppure come occasione per uno sviluppo economico e sociale nuovo». Sono le parole pronunciate allora da Enrico Berlinguer. Viene il dubbio che il problema dell’Europa non sia l’austerità, ma tutto ciò che manca delle politiche di Stafford Cripps.