L’importanza di essere internazionali

L’aggettivo “internazionale” è l’ossessione del momento. C’è la comunità internazionale, la legittimità internazionale, il mandato internazionale, la Corte di giustizia internazionale, l’economia internazionale. Nelle nostre università fioriscono titoli e dottorati internazionali, progetti internazionali, ricerche internazionali. Si parla di profilo internazionale di un politico o di un artista. Dire di una persona che ha gusto internazionale, significa porla al di sopra della massa, in uno scenario da film di 007, mentre fino a pochi anni fa l’espressione era forse interpretabile come sinonimo di gusti dozzinali e scontati. L’uso del termine sembra tratto dal linguaggio sportivo: il livello internazionale è quello superiore rispetto a quello nazionale, e tanto più a quello locale.

Le vecchie borghesie nazionali sono diventate tutte, per incanto, internazionaliste: in quello splendido aggettivo c’è il nuovo segreto della propria legittimazione; con quello si fissa l’asticella censitaria della propria selezione. Oltre allo stile di vita internazionale e alla visione internazionale, la borghesia cosmopolita ha soprattutto un’idea molto chiara del reddito internazionale (che supera di numerose volte quello medio nazionale) con cui intende far retribuire il proprio lavoro.

Il termine, malgrado sia formato da elementi latini chiaramente riconoscibili, non risale al mondo classico, ma è stato coniato in un’epoca molto più vicina a noi: fu il giurista inglese Jeremy Bentham, in un suo scritto del 1780, a inventare la parola “international”, per sostituire la vecchia espressione latina “ius gentium”, “law of nations” in inglese, cioè il tradizionale diritto delle nazioni, divenuto da quel momento diritto internazionale. Lo studioso ha avuto una certa fortuna come onomaturgo: a lui si devono probabilmente anche i due termini fondamentali dell’utilitarismo marginalista: “maximize” e “minimize”. Egli osservava: “La parola internazionale, bisogna notare, è nuova: tuttavia, si spera, sufficientemente analogica e intellegibile”.

La speranza di Bentham non è andata delusa, dal momento che il termine da lui coniato è risultato talmente intellegibile da circolare e diffondersi nel mondo seguendo correnti imprevedibili. Per esempio, in Italia la parola comincia a circolare attorno alla metà dell’Ottocento: la troviamo in un Dizionario politico popolare, di chiara ispirazione democratica, e poi negli scritti di Giuseppe Mazzini. Il fatto è che fin dal 1847 esiste a Londra una “People’s International League”, il cui nome viene tradotto da Mazzini in “Lega internazionale dei popoli”: come tale essa è conosciuta nella Repubblica romana del 1848. Nel 1864 nasce, sempre a Londra, la “International Working Men Association”, fondata da Karl Marx, destinata a diventare celebre semplicemente come l’Internazionale, resa nota in Italia dallo stesso Mazzini. Poi, nel 1871, il poeta francese Eugène Pottier, in piena repressione della Comune di Parigi, scrisse il testo di una canzone in onore dei comunardi, chiamata “Chant de ralliement de l’International”: l’Internazionale a cui fa riferimento è proprio quella dei lavoratori, e all’inizio la sua canzone veniva cantata sul motivo della marsigliese. Solo nel 1888 il musicista Pierre Degeyter, aderente al Partito operaio francese, fu incaricato di comporre una musica per quello che divenne il più celebre inno dei partiti operai di tutto il mondo, tradotto in innumerevoli lingue del pianeta, ancora oggi usato dal Pse, e come tale, anche dal nostro Partito democratico, che di quel partito è il maggiore membro italiano.

Tutto questo, solo per ricordare che le classi sociali internazionali ormai da un bel pezzo sono almeno due, e che tra loro esiste un chiaro terreno di confronto: per l’una l’internazionalismo serve a dividere, e consente di escludere la massa (provinciale e cafona) dai processi decisionali; per l’altra invece è proprio questa la prospettiva che tutti può unire: groupons-nous et demain
 l’Internationale sera le genre humain.