La battaglia sulla legge elettorale si sta concentrando sempre di più sul tema delle coalizioni pre-elettorali. La minoranza del Pd vuole riportarle in vita grazie a un emendamento che consentirebbe l’apparentamento al secondo turno e avrebbe l’effetto, non sappiamo quanto calcolato, di restituire ai micropartiti un notevole potere di ricatto in vista del ballottaggio. Ma da questo punto di vista, più tecnico che politico, va detto onestamente che ben poco cambierebbe se a fare fede come interpretazione autentica dell’Italicum fosse l’argomentazione del relatore del Pd, Gennaro Migliore, secondo il quale le liste cui andrebbe il premio sarebbero da intendersi in senso “coalizionale” (leggi: carrozzoni eterogenei tanto quanto le coalizioni degli ultimi venti anni). A dimostrazione del fatto che la questione tecnica ha in realtà importanza molto relativa.
Dal mio personale punto di vista, Rosy Bindi, che vuole resuscitare le coalizioni in nome della gloriosa tradizione dell’Ulivo, e Gennaro Migliore, che esalta la natura “coalizionale” delle stesse liste, pari sono. E hanno parimenti torto, nel volere tenere l’Italia imprigionata nel meccanismo perverso che in questi venti anni ha distrutto i partiti, moltiplicandone il numero e privandoli al tempo stesso di ogni consistenza, tanto che oggi il più antico simbolo elettorale presente sulla scheda è quello della Lega Nord. La politica nazionale è stata polverizzata.
Per averne la controprova basta prendere in parola i nostalgici delle coalizioni pre-elettorali. Una mostruosità non a caso sconosciuta a qualsiasi democrazia avanzata, che per venti anni i padri fondatori dell’Ulivo hanno esaltato, allo scopo dichiarato di sottrarre alle Camere e al Presidente della Repubblica la scelta del capo del governo e il processo di formazione della maggioranza (che dovevano essere scelti invece direttamente dagli elettori, nelle urne, ricordate?). Tralasciamo pure il fatto che oggi critichino l’Italicum per questa stessa caratteristica, vale a dire per ciò che ha in comune con il Mattarellum da loro tanto rimpianto, e stiamo alla questione politica, che alla fine della fiera non è altro che la nostalgia dell’Ulivo.
Ebbene, sfido ciascuno di loro e ogni lettore a dirmi chiaramente e semplicemente cosa sia stato l’Ulivo, quali partiti e quali politici ne facessero parte, quali fossero i suoi confini e la sua identità. Clemente Mastella, ad esempio, ne faceva parte o no? E Rifondazione comunista? Che cos’è stato esattamente l’Ulivo: una coalizione che andava dalla sinistra radicale a Lamberto Dini, una forza riformista che andava dai Ds alla Margherita, un carrozzone che teneva insieme il populismo giustizialista di Antonio Di Pietro e il trasformismo neocentrista dell’Udeur? Qual è il vero Ulivo: l’embrione del Partito democratico o il progenitore dell’Unione? E cos’è dunque, di preciso, che si vorrebbe riportare in vita? Almeno su questo sarebbe bene mettersi d’accordo prima. Non sia mai che poi, da un’invocazione agli eroi della Resistenza e ai padri della Costituzione, tra sbuffi di fumo, lampi e saette, escano fuori i volti paciosi dei coniugi Mastella. O magari di Antonio Razzi e Domenico Scilipoti.
A me piace pensare che il meglio della storia che l’Ulivo ha rappresentato sia confluito nel Partito democratico: non a caso il Pd al suo atto di nascita – che non furono le primarie del 2007, ma le europee del 2004 – si chiamava lista “Uniti nell’Ulivo”. Ma dato all’Ulivo il molto che gli spetta, resta il fatto che a distruggere i partiti in questi venti anni è stata anche e forse soprattutto la fictio iuris di coalizioni pre-elettorali come l’Ulivo-Unione e il Polo-Casa delle libertà (che nel frattempo ha vissuto una storia di metamorfosi non meno intensa). Il primo seme dell’antipolitica è stato proprio il continuo spettacolo di una coalizione che come tale vinceva le elezioni (pur non essendo altro, come abbiamo visto, che un accordo precario a geometria variabile), per essere poi dilaniata da partiti che nessuno sembrava più nemmeno ricordarsi di avere votato (mentre ciò che di per sé non esisteva, a rigore, era proprio la coalizione). Nulla è più pericoloso dell’accreditare presso gli elettori una rappresentazione dello scontro politico che non corrisponde alla realtà.
Da questo punto di vista, continuo a pensare che la legge elettorale attualmente in vigore, così come è uscita dalla sentenza della Consulta, sia la migliore possibile. L’Italicum, invece, ha ai miei occhi molti difetti – a cominciare dall’entità del premio di maggioranza – ma ha il grandissimo pregio di finirla con le coalizioni acchiappa-tutto. A condizione, naturalmente, che non si segua poi la strada delle liste “coalizionali”, e si lavori al contrario, anche attraverso i regolamenti parlamentari, per far sì che quella rissosa e perlopiù inconcludente stagione della politica italiana chiamata Seconda Repubblica resti solo un brutto ricordo.