Il futuro della Grecia è di nuovo appeso all’esito di un referendum. Sembra improvvisamente di essere tornati indietro di quattro anni, a quel 31 ottobre 2011 quando l’allora premier socialista George Papandreou, con una mossa a sorpresa, annunciò che il piano di ristrutturazione del debito greco sarebbe stato sottoposto a un referendum popolare entro la fine dell’anno. Le analogie però finiscono qui.
Quattro anni fa Papandreou annunciò un referendum che doveva servire a confermare l’accordo che aveva appena chiuso con la troika. “I sacrifici sono stati duri – disse il premier greco – ma aiuteranno a porre nuove fondamenta per il futuro. L’accordo raggiunto a Bruxelles è fondamentale per il paese, apre nuovi orizzonti per la Grecia ed è l’unico modo di rimanere nell’euro”. Il sostegno popolare verso il governo socialista era ai minimi storici e Papandreou, prima di avventurarsi nell’applicazione di quella cura da cavallo, aveva bisogno di vedersi confermata la fiducia dal proprio elettorato. Con il referendum il premier greco metteva in gioco il suo governo e la sua carriera politica, con la consapevolezza che un voto favorevole lo avrebbe rafforzato, mentre un voto negativo lo avrebbe certamente costretto alle dimissioni, ma avrebbe anche messo con le spalle al muro l’Europa. A quel punto, infatti, sarebbe toccato agli altri governi dell’Unione scegliere se restare fermi sulle proprie posizioni, costringendo Atene a uscire dalla moneta unica, oppure rivedere l’accordo in extremis per scongiurare la rottura.
La strada intrapresa da Tsipras è completamente diversa. Innanzi tutto, ha convocato un referendum ancora prima di chiudere un accordo con i creditori, agitando la consultazione popolare come una minaccia e usandola come strumento negoziale. In secondo luogo, si è messo a favore di vento, chiedendo un voto contrario all’accordo. In tal modo lui e il suo esecutivo sono al riparo da tutte le possibili conseguenze: se il referendum venisse bocciato, potrà dire che il popolo greco è allineato al suo governo nel respingere un accordo punitivo. Se, invece, il referendum venisse approvato, potrà attuare le impopolari riforme richieste dai creditori ricordando in ogni istante ai greci che lui era contrario, e che le nuove misure di austerity se le sono volute loro. Un capolavoro tattico, che dimostra però una profonda debolezza politica.
In cinque mesi di trattative il governo di Atene, pur avendo molte frecce al proprio arco e molti simpatizzanti anche nel Consiglio europeo, non è riuscito a portare a casa quasi nulla. La prima metà dell’anno è filata via fra proclami e dichiarazioni populistiche che più di qualche volta si sono trasformati in veri e propri dileggi verso le istituzioni europee e i suoi rappresentanti. Tsipras e i suoi compagni di viaggio si sarebbero potuti legittimamente presentare come l’unica classe dirigente in totale discontinuità con quelle che avevano guidato la Grecia nell’ultimo trentennio. E, ricordando retoricamente gli appoggi complici e interessati che i governi precedenti avevano ricevuto dall’Ue, avrebbero potuto presentare il proprio piano a lungo termine per una nuova Grecia, su cui costruire poi la trattativa sul debito. Si è invece preferito volare basso e arrangiarsi con il piccolo cabotaggio, nella convinzione di poter strappare condizioni vantaggiose e poter attuare alcune delle misure annunciate in campagna elettorale. Il fallimento di questa strategia ha costretto Tsipras a ripiegare su una exit-strategy unicamente per se stesso, capace – dopo aver malamente perso la partita delle trattative – di farlo uscire vincente in ogni circostanza.
L’annuncio del referendum ha poi un effetto che travalica i confini greci e investe il dibattito pubblico di tutti i paesi europei. La retorica sul ritorno della democrazia diretta e del potere al popolo, oltre a essere una mina piazzata alle fondamenta delle istituzioni democratiche rappresentative, rappresenta su scala europea il rischio di una escalation deflagrante ben peggiore delle politiche di austerità e dei problemi della governance economica. A febbraio il ministro delle finanze olandese Jeroen Dijsselbloem, durante un’audizione al Parlamento europeo, ha ricordato che – esattamente come Varoufakis – pure lui dopo ogni accordo raggiunto nelle sedi istituzionali europee è costretto a tornare a L’Aia nel suo Parlamento nazionale a difendere quanto deciso davanti agli agguerriti rappresentanti dei suoi concittadini. Il parere dei greci non vale più di quanto valga quello degli austriaci, dei lussemburghesi o degli svedesi.
Angela Merkel, che ha dietro di sé un popolo assai poco propenso a fare concessioni a Tsipras, se la potrebbe cavare semplicemente convocando un analogo referendum in Germania. E lo stesso potrebbero fare i governi dell’Italia, della Francia, della Spagna e così via, tutti creditori di Atene. Se non lo fanno è perché – fortunatamente – le classi dirigenti di questi paesi sanno che questo showdown si concluderebbe con una rapida deflagrazione di quanto faticosamente messo insieme negli ultimi sessant’anni di storia europea. Se Tsipras pensa che le condizioni negoziate con i creditori non vanno bene per il proprio paese, si assuma la responsabilità di bocciare tutto a Bruxelles. Farle rigettare dai propri concittadini lavandosene le mani non è la vittoria della democrazia, ma la morte della politica.