Una verità lunga quarantuno anni

Il 28 maggio 1974 a Brescia era stata indetta una manifestazione di tutte le sigle sindacali e del Comitato unitario permanente antifascista, per riaffermare la forza della democrazia di fronte a una serie impressionante di attentati che si era scatenata in città e nel paese, colpendo sedi sindacali, partiti politici, uffici pubblici, e culminata con la morte di un giovane neofascista bresciano mentre trasportava un ordigno esplosivo. Migliaia di insegnanti, operai, pensionati, studenti scesero in piazza, in una città di duecentomila abitanti, dei quali almeno la metà lavorava nelle fabbriche. Le manifestazioni partirono da diversi punti, in lunghi cortei fitti, e confluirono in piazza per i discorsi dei rappresentanti sindacali. Alle 10,12 una bomba, nascosta in un cestino del colonnato, esplose, uccidendo otto persone e ferendone oltre un centinaio. La strage di Piazza della Loggia: il momento esatto in cui la bomba esplode è rimasto impresso – caso unico – in una registrazione da brividi, che si trova agilmente anche in rete.

La città e il paese sono sconvolti. La stagione delle stragi sembra non avere fine e non c’è nemmeno il tempo di riprendersi dall’euforia referendaria (il 12 e 13 maggio 1974 gli elettori avevano detto no all’abolizione del divorzio), che aveva restituito l’idea di un paese moderno e di una democrazia rafforzata, dopo che l’onda d’urto del terrorismo e la notte dei golpe ne avevano fatto tremare le fondamenta. Le indagini partono il giorno stesso (“a spron battuto” avrebbero titolato i giornali di un’altra epoca) ma, come spesso accade in quegli anni, a una risposta immediata non sempre corrisponde un’azione efficace e gli investigatori, di fatto, girano a vuoto per circa un anno prima di imboccare una pista legata al neofascismo locale e alla delinquenza comune. Ma è una pista che solleva dei dubbi, disseminata di violazioni dei diritti degli imputati e dei testimoni, e che deflagra nei processi, dimostrandosi infondata. Negli anni successivi le indagini continuano, raccogliendo ogni spunto, vagliando ogni suggestione, ogni elemento utile; inchieste che, però, si concludono con una serie di assoluzioni con formula piena. Ma come cerchi concentrici che si propagano sulla superficie piatta di un lago, nuove indagini muovono dagli elementi raccolti nei processi precedenti per fare un passo avanti, altri terroristi parlano, altri documenti vengono ritrovati, in un disvelamento progressivo in grado di chiarire una prospettiva storica, ma che sembra non condurre mai a un’attribuzione di responsabilità personale. Un cammino a tratti estenuante, che è arrivato fino a oggi, quarantuno anni dopo, con la sentenza con cui la Corte d’assise d’appello di Milano ha riconosciuto responsabili della strage due imputati, decidendo dopo un annullamento delle assoluzioni da parte della Cassazione. La sentenza non è ancora definitiva e le motivazioni non sono ancora state depositate, ma la sua conferma rappresenterebbe un passaggio decisivo nella storia giudiziaria di Piazza della Loggia. E non solo.

La verità storica su quella stagione, su quegli anni che – insieme alla Resistenza e alla Costituente – sono stati fondativi della nostra coscienza democratica, e anche di alcune sue perversioni, può dirsi accertata da decenni: dalle responsabilità del terrorismo neofascista al sistematico ruolo di sponda e protezione svolto da alcuni settori dei servizi; ma è un’attribuzione di responsabilità personale, che finalmente conduca a una corrispondenza tra verità storica e verità processuale, ciò che manca, in un paese che ha il pessimo vizio di considerare reale solo ciò che sta scritto in una sentenza. Il senso di questa pronuncia, però, se dovesse diventare definitiva, è anche un altro, forse ancora più profondo, anche dopo quarantuno anni.

La mattina del 28 maggio 1974, in Piazza della Loggia, si è rotto un patto capitale tra lo stato e i suoi cittadini, un accordo costituzionalmente garantito, che è uno dei fondamenti della democrazia: lo stato deve garantire ai cittadini l’incolumità nell’esercizio dei propri diritti e delle libertà personali, ed è in questa prerogativa che trovano giustificazione l’uso della forza e l’imposizione dei doveri. Uno stato che, nonostante questo, non riesce a proteggere l’integrità del corpo di migliaia di manifestanti tradisce questo patto costituzionale, e apre una crepa nel rapporto di fiducia che governa la complessa relazione con le istituzioni democratiche. Il giorno dei funerali arrivarono a Brescia mezzo milione di persone; Saragat, Leone, i segretari di partito, i rappresentanti sindacali vennero subissati di fischi e l’ordine pubblico in quella giornata fu garantito dalla cittadinanza e dal servizio d’ordine dei sindacati, con un’esautorazione morbida delle forze dell’ordine senza precedenti. Il padre aveva tradito, la fiducia era perduta.

La sentenza di Milano arriva al termine di uno sforzo straordinario e di un lavoro incessante – per alcuni addirittura incomprensibile, in un secolo diverso – di progressiva rivelazione delle responsabilità e dei coinvolgimenti, e potrebbe finalmente consegnare ai familiari delle vittime nomi e cognomi, ma rappresenterebbe soprattutto il momento in cui si riannodano i fili di una democrazia oltraggiata, ricostruendo quel patto che lo stato aveva violato; e che le sistematiche attività di depistaggio di alcuni suoi uomini avevano reso apparentemente insanabile. Una sentenza dopo quarantuno anni per alcuni è una sconfitta della giustizia, e forse lo è, ma è anche la dimostrazione della forza intrinseca e inesorabile della democrazia e delle sue istituzioni.

«Sono tornato al Pincio – scriveva il filosofo francese Georges Didi-Huberman, commentando il famoso articolo delle lucciole di Pasolini – e ho visto che le lucciole sono tornate».