Sarà perché siamo reduci dallo scossone provocato dalla vicenda del debito greco, i cui interminabili negoziati hanno regalato un tutto sommato proficuo bagno di realtà a chi per un momento ha pensato che nuovi equilibri politici fossero possibili senza portarsi dietro rapporti di forza diseguali. Sarà perché dalla sera alla mattina c’è stato chi ha scoperto una tale novità politica, e cioè che integrazione europea e sovranità nazionale non marciano poi così unite, se non a certe condizioni a quanto pare tutt’altro che complementari. Sarà poi anche perché questi risvegli alla realtà più o meno forzati sono piombati addosso a distanza di un anno dalla fiera delle speranze che erano state le ultime elezioni del parlamento di Bruxelles, il cui adagio cavalcato da media e politici “this time it’s different” prometteva nuova linfa democratica alla legittimità dei nostri rappresentanti. Sarà o meno per convergenze di cotale portata (ma la serie potrebbe continuare), sta di fatto che con rinnovata solerzia sulla bocca e sulla penna di commentatori e editorialisti è piombato il nodo dei rapporti non sempre lineari e spesso irrisolti – si fa per dire – tra sovranità nazionale e vincoli derivanti dall’unione monetaria ed economica. In buona sostanza, un’ineludibile questione democratica, come è stata chiamata, che solo in ultima battuta prenderebbe le sembianze di una piazza Syntagma popolata fino all’alba e accesa di apprensione per le ratifiche in votazione nel suo Parlamento.
Per risalire a monte si dovrebbe insistere sul modo più o meno sincero (verso gli elettori) e più o meno realista (verso i rapporti di forza) con cui partiti di governo dell’Europa più in difficoltà accetteranno di operare negli spazi ristretti loro concessi; richiamo diffuso e di per sé condivisibile, semmai un po’ troppo pigro quanto all’analisi che vi sta dietro. Perché se il problema sta nella capacità messa in campo dalla politica di trovare un equilibrio tra legittimità democratica, regole e limitazioni sovranazionali, questa mediazione dovrà pur fare i conti con lo spazio che la legittimazione in questione ha occupato. Quali forme essa ha assunto? E poi ancora, in che modo si è modificato il funzionamento politico del sistema europeo sino a diventare quasi irriconoscibile se paragonato ai consueti termini dei regimi democratici nazionali? Interrogativi che sono il bersaglio di Elogio della sovranità politica, l’ultimo libro di Biagio de Giovanni (Editoriale Scientifica, Napoli 2015), la cui non ultima virtù sta senz’altro nella vena problematica che lo percorre, concedendo essa nulla a sguardi sull’avvenire onnicomprensivi e ambiziosi di conclusività (che a dire la verità non è poco in tempi di grande successo per filosofiche scorpacciate di scenari globali e critiche della globalizzazione a tutto tondo!).
E questo vale anzitutto per la sovranità nominata nel titolo, che, de Giovanni insiste, non è oggetto di un elogio funebre. Perché in questo caso si tratterebbe di buttare alle ortiche non un protagonista qualunque, non soltanto una parola e neppure un concetto appeso come un caciocavallo al soffitto, ma il risultato moderno, per di più non poco sofferto, degli sforzi per frenare e insieme dare una legittimità al potere. Non un approdo da poco insomma, che ha dato corpo alla democrazia politica con le forme e le riserve di garanzia che conosciamo; un esito, poi, che non ha certo esaurito la spinta al cambiamento a cui la stessa democrazia contemporanea è sottoposta, senza del resto che siano parimenti chiari gli approdi possibili. E queste sono le acque agitate in cui oggi navighiamo. Popolo, territorio, interesse nazionale; è sotto gli occhi la fatica della politica nel declinare questi termini nel momento di decisione più alto che i regimi democratici le dovrebbero conferire: quello costituente, e cioè dove sovranità e politica fanno tutt’uno.
Colpa della perdita di credibilità di quelle forze materiali (i partiti) che tale sovranità avrebbero il compito di veicolare? Sicuramente, e il caso italiano è lì a dimostrare che in qualche modo ancora patisce la peculiare via con cui uscì dalla commozione che sorprese il suo sistema partitico al tramonto della Prima Repubblica. Colpa delle più generalizzate condizioni in cui versano i canali classici della legittimazione popolare? È questa ad esempio l’opinione di Pierre Rosanvallon, espressa in un libro anch’esso di recente pubblicazione in Italia (La legittimità democratica, Rosenberg & Sellier, Torino 2015), e che ben si può fare interloquire con le riflessioni di de Giovanni. Secondo lo studioso francese, oltre che in occasione dell’appuntamento elettorale e intorno a quella rappresentanza formale esercitata in nome dei diritti fondamentali, la qualità politica di un popolo passa dall’identità che si è in grado di conferire alla serie di minoranze che con le loro rivendicazioni e iniziative animano lo spazio pubblico. Quel che merita attenzione però è che questa identità non è bell’e pronta alle nostre spalle, in attesa di essere chiamata ad esprimersi, magari con un sondaggio in rete. Per darle la caratura di espressione generale serve una fatica ulteriore, che sta nelle parole e nei tempi che a queste minoranze si offrono per dare corpo a quella che Rosanvallon chiama “democrazia di interazione”.
Questa fatica è la possibilità che compete alle parole e alle azioni della politica sovrana declinare e a cui essa dovrebbe tenere, a meno di volere frettolosamente demandare alla generica “vita della società” il governo delle tensioni legate al movimento di popoli e alla pretesa di territori. A guardare in casa nostra viene persino la speranza che una riforma costituzionale al vaglio del nostro Parlamento possa offrire l’occasione perché questi elogi della sovranità prendano a camminare coi piedi per terra. A patto forse che la discussione sui nodi che hanno sin qui goduto di maggiore visibilità (elezione indiretta del Senato su tutti) non abbia l’effetto di allontanare il Senato da uno dei suoi prevedibili compiti: quello di immettere nel processo legislativo nazionale i portatori delle diversità regionali e, con essi, le occasioni di reciproca consultazione che favoriscano tra livelli diversi di intervento legislativo una mediazione equilibrata.