L’attore che interpreta Romeo non ha nessuna intenzione di sposare l’attrice che interpreta Giulietta; eppure davanti a un pubblico di centinaia di persone è pronto a giurarle amore eterno, “per questa sacra luna che inargenta le cime di questi alberi”. Nella Tempesta, l’attore che interpreta Calibano non può promettere alcunché all’attore che interpreta Stefano; eppure gli garantisce — “I warrant” — che, uccidendo Prospero, otterrà l’amore della figlia del mago. Calibano mente sicuramente, eppure nessuno in platea accuserebbe di spergiuro l’attore che lo interpreta: la finzione teatrale produce paradossi che lo spettatore ha imparato a risolvere con facilità. Ma dove, quando e come lo ha imparato? Forse proprio in Inghilterra, ai tempi dello scisma di Enrico VIII, in pochi decenni di fitta elaborazione legislativa che contribuiscono a modellare una forma nuova di spettacolo, il teatro moderno, della quale prestissimo Marlowe e Shakespeare mostreranno le potenzialità. Il caso inglese non è peculiare ma sicuramente esemplare: ci fornisce il pretesto per raccontare la nascita della modernità attraverso il suo primo grande cantiere politico, ovvero la regolamentazione della parola pubblica allo scopo di pacificare una società sull’orlo della guerra civile.
Frugando il corpus shakespeariano con un motore di ricerca si individuano decine di “I promise”, “I vow” e “I swear”, espressioni che nella vita quotidiana vincolano i parlanti, producono effetti; e che sulla scena invece non fanno un bel niente. Questi diversi enunciati corrispondono a ciò che il filosofo John Austin nel suo classico testo Come fare cose con le parole del 1962 chiama “atti linguistici”: promettere, minacciare, giurare, sfidare qualcuno a duello, emettere un verdetto, dare un ordine, nominare a una carica, eccetera… Per via dei loro effetti concreti sulla società umana, o “performativi” come scrive Austin, gli atti linguistici sono generalmente sottoposti a disciplina e sanzione. Nelle nostre democrazie non c’è libertà d’espressione che tenga per il mandante di un omicidio, per il giudice corrotto o per il truffatore, sebbene in fin dei conti la loro colpa sia soltanto di aver pronunciato le parole sbagliate al momento sbagliato. E se nessuno parla più oggi dello spergiuro come del più grave tra i peccati, il reato di falsa testimonianza è ancora punito con la reclusione.
Nello stesso tempo, gli atti linguistici sono frequenti a teatro per via della loro funzione drammatica — fanno accadere delle cose — ma in questo contesto nessuno è tenuto a prenderli sul serio. I finti lord, duchi e sovrani che popolano le tragedie elisabettiane pronunciano frasi che, nella bocca di veri lord, duchi e sovrani, avrebbero avuto un vero effetto politico. Così Re Edoardo II, nel dramma eponimo di Christopher Marlowe, in soli tre versi promuove ad alte cariche il suo favorito Gaveston:
Ecco ti nomino Lord Ciambellano,
Primo Segretario dello Stato e mio,
Conte di Cornovaglia, re e Signore di Man.
Sebbene qualche giurista del Cinquecento si sia seriamente interrogato sull’efficacia di certe formule pronunciate “per gioco” (ioci causa), ad esempio un battesimo pronunciato tra bambini, è raro nella pratica che simili interrogativi vengano presi sul serio. Precise condizioni, dette da Austin “condizioni di felicità”, determinano la validità dell’atto. Essere un attore travestito da Edoardo II, di tutta evidenza, non è una condizione adeguata per creare un Lord Ciambellano. Ma persino a un vero re possono mancare le condizioni per realizzare un atto linguistico, come in quella scena del Riccardo III di Shakespeare dove il re vuole giurare ma, avendo profanato ogni cosa sacra, non trova letteralmente nulla su cui giurare.
Le condizioni di felicità possono essere complesse: per esempio, a condannare un uomo deve necessariamente essere un giudice nell’esercizio delle proprie funzioni, in un certo momento e in un certo luogo, rispettando certe procedure, magari vestendo in un certo modo o indossando un’eccentrica parrucca. Queste liturgie del potere, tutt’altro che superflue, sono necessarie al fine di riuscire a “fare cose le parole”. In effetti sono anche i paramenti, gli addobbi, i simboli, gli attributi e le frasi convenzionali a rendere validi gli atti linguistici d’uno sposo quando si sposa, d’un giudice quando giudica o d’un re quando regna. Così Portia nel Mercante di Venezia, travestendosi da giudice, riesce a far condannare Shylock da un vero tribunale. A fronte di questa paradossale teatralità del potere, era legittima la perplessità di Erasmo nella sua Educazione del principe cristiano del 1515:
Se un collare, uno scettro, un abito purpureo e una schiera di adulatori bastassero a fare un sovrano, che cosa dunque impedirebbe agli attori tragici, che sulla scena si presentano così agghindati, d’essere effettivamente considerati come dei re? Come si distingue il principe dall’attore?
Riformulando un celebre argomento agostiniano, a Erasmo preme qui affermare che il potere del sovrano dipende non certo dalla semplice apparenza ma dalla sua legittimità. È dunque la legittimità — ammettendo che la si possa vedere — che distingue il principe dall’attore, ma soprattutto dall’usurpatore o dal tiranno che si “travestono” da re, ovvero quei “re contraffatti” evocati da Shakespeare nel Re Giovanni e nell’Enrico IV. Ma cosa distingue allora l’attore che interpreta il sovrano sulla scena da un vero falso re? E perché mai l’attore che interpreta Riccardo III viene applaudito mentre il Riccardo III storico, vestito da re ma privo di ogni legittimità, viene ucciso da Enrico Tudor conte di Richmond? Questioni tanto più serie perché tra il 1532 e il 1534 il sovrano d’Inghilterra si era svincolato dall’autorità della Chiesa di Roma e in questo modo era diventato illegittimo per i papisti. E loro come distinguevano Enrico VIII da un semplice istrione?
C’è un gradino, innanzi tutto, che si chiama scena; uno spazio fisico, un limite distinto; una “O di legno”; c’è un teatro. Tuttavia il luogo dello spettacolo non nasce assieme allo spettacolo — ovvero all’impiego dilettevole dell’umana facoltà mimetica — ma sorge e si sviluppa storicamente: in Inghilterra, il primo venne edificato nel 1576, e prese appunto il nome di The Theatre. Nei secoli precedenti si recitava in strada, in piazza o in luoghi chiusi solitamente adibiti ad altre funzioni come le taverne o… le aule dei tribunali. Lo spazio teatrale serve per isolare lo spettacolo dalla realtà; forse per evitare un contagio, un’oscena confusione che renderebbe impossibile la convivenza civile. Come precisa Austin formalizzando un’evidenza intuitiva, un atto linguistico proferito da un attore sul palcoscenico è nullo (“hollow or void”) ma questa nullità è tollerata. In scena i finti re e i finti cittadini, proprio come quelli veri, dichiarano, giurano, nominano, invocano, promettono, condannano, talvolta bestemmiano, compiono cioè degli atti linguistici. Questi atti valgono, se valgono, per la sola durata dello spettacolo e nel solo spazio dello spettacolo.
Insomma lo spazio teatrale sembra godere di uno statuto speciale, una sorta di extraterritorialità; almeno fintanto che dal palco di quel teatro qualcuno non inizi, col pretesto della finzione scenica o magari della satira, a “fare cose con le parole” che rientrino in specifiche categorie di reato come la diffamazione, l’apologia di terrorismo, l’incitamento all’odio razziale, il vilipendio della religione. Da Luttazzi a Dieudonné in Francia, la giustizia è stata spesso chiamata in questi ultimi anni a pronunciarsi sugli spettacoli; addirittura, l’Italia si è trovata ad avere come secondo partito alle elezioni legislative del 2013 (primo se non si conta il voto all’estero) una formazione politica nata come invenzione di un comico e portata in giro per teatri e palasport di tutto il paese come spettacolo pagante. In una lettera del 1536 ai magistrati di York, Enrico VIII già denunciava che i papisti approfittavano degli spettacoli a tema religioso per promuovere impunemente i loro propositi tirannicidi. In questi casi appare evidente che “essere un attore” e “stare sul palcoscenico” non sono (e non sono mai state) le sole condizioni da tenere in considerazione per invalidare gli atti linguistici: esistono anche specifici dispositivi che regolano quello che accade in scena, dove, quando, come, davanti a chi, a che prezzo, sotto quale regime fiscale… Soltanto rispettando tutte queste rigorose condizioni l’atto linguistico potrà essere considerato effettivamente nullo e quindi adatto a essere reso pubblico.
Particolarmente attuale è il tema della blasfemia, che pone nuovi problemi sociali a fronte della presenza in Europa di comunità di musulmani talvolta sensibili sulla questione. I casi di violenza in Occidente restano relativamente rari ma particolarmente gravi, come l’omicidio del regista Theo van Gogh nel 2004 o l’attentato a Charlie Hebdo a gennaio di quest’anno. La rarità di queste reazioni estreme non deve ingannarci quanto all’intensità dei loro effetti nell’accentuare le divisioni. Ma si tratta poi davvero di problemi nuovi? L’Europa ha avuto i suoi iconoclasti — protestanti — secoli prima che ne arrivassero altri dall’Africa o dal Medio Oriente, e di rivolte contro il culto delle immagini divine ne ha sopportate diverse tra il 1523 e il 1562.
La storia del teatro inglese mostra che furono proprio le questioni religiose, in un’Europa lacerata dalla Riforma, a stimolare le misure amministrative che portarono alla professionalizzazione degli attori e degli autori, allo sviluppo di nuovi generi e alla “sedentarizzazione” delle compagnie. Cinque anni dopo il Pellegrinaggio di Grazia, la grande rivolta dei papisti scoppiata nel 1536, tre attori di strada vennero linciati dalla folla a Salisbury e un’altro a Shoreditch per aver rappresentato delle scenette giudicate ereticali; i loro nomi sono ricordati tra i martiri protestanti negli Actes and Monuments di John Foxe del 1563. Per prevenire i rischi di turbamento dell’ordine pubblico, nel 1543 il Parlamento si convince a proibire ogni performance pubblica che abbia a che fare con l’interpretazione delle Scritture. Queste misure di fatto condannano a morte un genere di tradizione secolare, il mistero, e aprono la strada alla tragedia (con il Gorboduc di Norton e Sackville nel 1561) e al dramma storico (con l’Edoardo II di Marlowe nel 1592). Sembrerebbe addirittura che, nello scambio, ci abbiamo guadagnato qualcosa.
Per tutta la seconda metà del Cinquecento si continua a legiferare e perseguire le infrazioni. Nel 1545 viene istituito un sistema centralizzato di emissione di licenze, presieduto dal cosiddetto Master of Revels, al fine soprattutto di prevenire le invocazioni del nome di Dio (“oaths”) anche in forma eufemistica (“minced oaths”). Ieri come oggi, l’irruzione del divino nello spazio pubblico porta a manifestarsi profonde divergenze ideologiche che la società multiculturale, se non vuole andare in pezzi, deve invece riuscire a occultare. Non si tratta tanto di “mettere a tacere” quanto di drenare la parola verso tempi e luoghi di espressione nei quali risulti inoffensiva. Parafrasando Michel Foucault la questione non è “come dire di no” alle forze che minacciano la polis ma “come dire di sì”, come lasciar-dire la parola disattivandone tuttavia il contenuto performativo.
Per prevenire ogni rischio, il Master of Revels richiede in visione un testo scritto sul quale effettua le sue correzioni: questo imperativo naturalmente rivoluziona la pratica teatrale e il rapporto tra testo e messa in scena, incidentalmente dando forma alle categorie moderne di “opera” e di “autore”. Il ruolo del grande censore, che prima di allora si occupava semplicemente dell’organizzazione logistica delle feste a corte, finisce nel 1624 per sovrapporsi col Lord Ciambellano, primo dei ministri del regno e prima ipostasi della Corona: segno della centralità di questo ruolo apparentemente marginale — censurare, distribuire licenze, approvare date — nel quale tuttavia si manifesta in maniera chiarissima la prerogativa del sovrano secondo la celebre formula di Carl Schmitt, “decidere sullo stato di eccezione”.
La storia di questo particolare stato, tempo e luogo di eccezione che chiamiamo teatro vive in Inghilterra la sua prima stagione tra il 1532 e il 1642, tra l’Atto di Supremazia di Enrico VIII e la (temporanea) chiusura delle sale di spettacolo di Londra per volontà dei puritani. È la storia di una serie di disposizioni normative che disciplinano i modi della rappresentazione per delimitarla: spazi, tempi, licenze, registri, linguaggio. È la storia, dunque, di come lo spettacolo è stato neutralizzato come fenomeno politico e trasferito in una nuova dimensione attraverso un processo, per citare Gadamer, di “differenziazione estetica”. Una storia esemplare che torna utile ricordare in questi tempi bui che mettono lo stato liberale secolarizzato di fronte agli antichi fantasmi della discordia civile.
Dopo la più celebre “fine del Laissez-faire” annunciata da Keynes è dunque giunto il tempo della fine del Laissez-dire? Qualcuno ribatterà che, piuttosto che tirare in ballo questi vecchi arnesi, sarebbe opportuno risolvere i problemi alla radice — agendo sulle condizioni economiche, sull’istruzione, sulla cultura. Giustissimo: ma fintanto che questi problemi non saranno risolti, bisognerà pur trovare un modo di amministrarli.
(Ringrazio gli amici della Fondazione Elia Spallanzani per alcune preziose indicazioni)