La dialettica fra Italia e Commissione europea sviluppatasi nelle ultime settimane segna senza dubbio una novità di rilievo per il nostro paese. Nella lettura che prevale fra commentatori e policymaker di casa nostra, l’attuale costruzione europea si è trasformata da soluzione a problema. Da un lato ci sono una serie di questioni aperte – dalla bad bank agli aiuti di stato – su cui l’Italia mostra di sentirsi discriminata rispetto a quanto avvenuto nel caso di altri paesi membri. Dall’altro sembra esserci una crescente – anche se tardiva – consapevolezza che l’attuale governance economica è inadeguata non solo per uscire dalla crisi, ma anche per garantire all’Unione europea il ruolo che le compete nello scacchiere internazionale. Il problema non sembra risiedere tanto nella nuova strategia adottata dal nostro governo, molto difficile ma giustamente ambiziosa. E non sembra nemmeno risiedere nelle questioni di merito relative ai dossier su cui – bisogna dirlo con franchezza – le risposte della Commissione si dimostrano sempre più imbarazzate e imbarazzanti. Il problema è soprattutto nella tattica: è quella giusta per cambiare l’Europa?
Se guardiamo alla storia più o meno recente abbiamo assistito a due modi principali di negoziare. Il primo, più tradizionale e più politically correct, è stato quello di farlo sottobanco. Si sono aggiustate, aggirate e violate le regole, ma non si sono mai messe veramente in discussione. Per certi versi si è trattato di una dimostrazione di quanto solide siano le radici cristiane dell’Europa: l’applicazione del metodo cattolico da parte dei protestanti. Il secondo modo, più raro e decisamente più rude, è stato quello di anteporre, senza troppi problemi di forma, l’interesse nazionale tout court. L’hanno fatto due grandi paesi come Germania e Francia, quando hanno violato il parametro del 3% stabilito dal Trattato di Maastricht senza entrare in procedura di deficit eccessivo. E lo stanno facendo ora molti piccoli paesi per quanto riguarda l’immigrazione e la sicurezza, infrangendo il tabù per cui questo metodo era riservato soltanto alle grandi potenze. Nessuno di questi due metodi è però in grado di cambiare l’Europa. Anzi, in buona misura entrambi contribuiscono a peggiorarla.
Una novità apprezzabile, soprattutto per un paese che al momento presenta la maggior forza politica europeista dell’intera Unione come il Partito democratico, potrebbe essere questa: facciamo proposte costruttive alla luce del sole per cambiare le regole in chiave europea, ma se gli altri paesi non ci stanno e fanno prevalere l’interesse nazionale allora anche noi faremo lo stesso. Insomma la classica strategia tit for tat (che in italiano potremmo tradurre come “pan per focaccia”) di un giocatore che vorrebbe essere cooperativo ma che, di fronte alla non-cooperazione degli altri giocatori, decide di diventare anche lui non-cooperativo. Naturalmente, per portare avanti un approccio di questo tipo in modo credibile e non velleitario, occorre la condivisione di due premesse. La prima è che le attuali regole europee non funzionano perché non risolvono i problemi dell’Europa e, addirittura, contribuiscono ad aggravarli (quello che i politologi chiamano “no output legitimacy”). La seconda è che le nuove regole dovranno riflettere un ragionevole compromesso fra interessi nazionali in nome di un interesse comune.
Come si pone l’Italia davanti a una prospettiva di questo tipo? Non si può negare che più di qualche volta Matteo Renzi sembra ragionare esattamente in questo modo. Il suo governo, negli ultimi mesi, si è fatto promotore di una serie di iniziative in netto contrasto con quelle posizioni ormai consolidate che hanno soffocato l’Europa negli ultimi venticinque anni. Basti pensare al recente braccio di ferro sulla costruzione di una garanzia unica sui depositi a livello europeo, con la Germania attestata sulla consueta politica dei due tempi (prima la riduzione dei rischi a livello nazionale, poi – forse – una mutualizzazione delle eventuali perdite) e l’Italia a ricordare che riduzione e condivisione del rischio sono strettamente collegate fra di loro e si rafforzano vicendevolmente, con la seconda che influenza positivamente la prima. Qualche altra volta, però, il presidente del Consiglio è sembrato semplicemente unirsi alla canizza degli interessi nazionali e ha finito per apparire solo un po’ più bullo degli altri capi di governo. Se l’obiettivo è portare a casa qualche concessione per il nostro paese, questa seconda strada è sicuramente la più efficace. Se, invece, l’obiettivo è quello di cambiare l’Europa, noi – senza alcun dubbio – preferiamo la prima versione.