Con Gianroberto Casaleggio se ne è andata una singolarissima figura politico-intellettuale, appartenente a quella ristretta cerchia di leader capaci di fondare un partito dal nulla, o comunque da una combinazione assolutamente originale di materiale ideologico preesistente, sebbene del tutto eterogeneo. Fondando la Lega Nord, Umberto Bossi si limitò – si fa per dire – a federare e a rinnovare radicalmente un’antica tradizione di movimenti indipendentisti. Antonio Di Pietro, che per qualche tempo a Casaleggio si affidò, non riuscì mai ad andare oltre il movimento personale, incapace di dargli anche solo la parvenza non diciamo di un’ideologia, ma almeno di un’identità autonoma (e infatti: chi ricorda oggi il nome di un solo dirigente dell’Italia dei Valori, a parte lo stesso Di Pietro?). Silvio Berlusconi, che per molti aspetti sarebbe il caso più simile, quando decise di fondare Forza Italia disponeva già delle risorse del gruppo Mediaset e di un rapporto consolidato con la politica, che è cosa ben diversa dal disporre della Casaleggio Associati e di un rapporto personale con Beppe Grillo. Insomma, nonostante l’abissale diversità dei risultati elettorali, il parallelo più significativo è forse quello tra Gianroberto Casaleggio e Giacinto Pannella, detto Marco.
Entrambi hanno fondato (o quantomeno, nel caso di Pannella, completamente riplasmato) un partito-movimento originale, mescolando un lessico da sinistra extraparlamentare e una vaga ideologia da democrazia assembleare con posizioni tipiche del fronte opposto (liberismo e interventismo nel caso dei radicali, le posizioni anti-immigrati e anti-fisco per i cinquestelle). In questo modo hanno dato corpo e continuità al filone politico-filosofico dell’individualismo anni sessanta. Hanno riutilizzato la spinta antipartitica e anti-istituzionale tipica dei movimenti di quella stagione, la loro carica utopistica e il loro fervore ideologico, il tratto narcisistico e autoritario delle loro leadership, intrecciandoli però con suggestioni nuove e diverse, tipiche dei decenni successivi e a volte del tutto contraddittorie. Come nel caso, ad esempio, dell’interventismo dei radicali in tutte le crisi internazionali degli ultimi venti anni, ad onta del simbolo della pace stampato nel loro marchio. O come nel caso ancor più singolare della carica anti-industrialista e paleo-ambientalista dei cinquestelle, cultori del mito della decrescita felice, combinata però con il mito opposto della rivoluzione informatica e di internet, che certo non crescono sugli alberi.
Entrambi i partiti-movimenti hanno qualcosa della setta, in particolare nella fede cieca, talvolta al limite del fanatismo, che sono capaci di suscitare nei propri seguaci, riconoscibilissimi anzitutto per il loro tipico modo di discutere: la retorica della democrazia e dell’amore universali va bene finché nessuno li contraddice, ma il primo che si azzarda a farlo, qualunque sia l’argomento proposto, è immediatamente etichettato, nella migliore delle ipotesi, come un servo della casta partitocratica (altro concetto chiave dell’ideologia grillina di cui Pannella detiene il copyright). Questa però è una caratteristica che gli stessi radicali hanno assorbito, a loro volta, dai movimenti e dai gruppuscoli degli anni sessanta, sostituendo soltanto le categorie e gli epiteti tipici del lessico marxista-leninista con un canestro di parole nuove, come avrebbe detto il poeta (De Gregori, in questo caso, non Fedez, e qui probabilmente sta la differenza più rilevante). Anche così, con una certa dose di manicheismo, radicali e cinquestelle hanno tentato di sfuggire alla classica distinzione destra-sinistra, centrata sul conflitto distributivo, per cercarsi un diverso terreno di lotta, ora molto più concreto (il corpo, la vita, i diritti civili per i radicali; l’ambiente, l’energia, i trasporti per i cinquestelle), ora molto più astratto, fino all’inafferrabilità (il partito radicale transnazionale, Gaia).
Pur nell’enorme diversità del tratto e del ruolo personale – da questo punto di vista Pannella è stato insieme Grillo e Casaleggio – tanto il leader radicale quanto il guru cinquestelle hanno scelto di costruire piccole comunità chiuse, anche quando capaci di raccogliere molti consensi all’esterno, privilegiando sempre la compattezza alle possibilità di allargamento, la controllabilità alla crescita, e difendendone i confini con una buona dose di autoritarismo, ma soprattutto con il mito della propria radicale diversità e della propria intransigente contrapposizione al sistema. Un sistema politico-economico-mediatico dai contorni ovviamente nebulosi, corrispondente fondamentalmente al concetto: tutti gli altri.
Contro quel sistema Casaleggio e Pannella non hanno mai smesso di combattere, per finta o per davvero, tuonando quotidianamente, in particolare, contro giornali e giornalisti servi del regime, da cui sono stati in compenso vezzeggiati, coccolati e riveriti come nessun altro. Entrambi si sono sempre atteggiati ad anti-italiani, rivoluzionari solitari in un paese che non li merita, figli scapestrati di un establishment politico o imprenditoriale da cui si sono sentiti respinti e che invece, molto spesso, li ha semplicemente adorati. Un establishment che in loro si è rispecchiato, si è riconosciuto e si è piaciuto più di quanto gli uni e gli altri avrebbero mai potuto ammettere, seguendo anche in questo un’antica, gattopardesca tradizione. Quella del sovversivismo delle nostre classi dirigenti – ma forse, in omaggio a quel lessico antico, dovremmo dire semplicemente: della nostra borghesia – che è poi la fonte originale del singolare impasto di atteggiamenti rivoluzionari, pulsioni anarchiche e riflessi autoritari da cui tutto è nato.