Il 18 maggio di ventotto anni fa moriva Enzo Tortora dopo una breve malattia, pena accessoria dell’esperienza umana e giudiziaria a cui fu sottoposto. Era il 17 giugno del 1983 quando, sulla base delle dichiarazioni di alcuni presunti pentiti della Nuova Camorra Organizzata, veniva arrestato per ordine della Procura di Napoli. Associazione a delinquere di stampo camorristico e spaccio di droga, le accuse. In quel momento Enzo Tortora raccoglieva davanti al televisore oltre venti milioni di telespettatori, era un uomo colto, forse non particolarmente simpatico (certo è che, dal giorno del suo arresto, la scarsa simpatia verrà ampiamente ricambiata da colleghi giornalisti e opinione pubblica). Le accuse a Tortora erano inconsistenti, ma le reazioni furono devastanti, non solo per Tortora.
La vicenda è nota. È stata raccontata mille volte, ma mai abbastanza. Quella vicenda avrebbe dovuto cambiare il nostro rapporto con la giustizia. Invece, oggi lo possiamo dire, il caso Tortora fu solo una prova generale. Enzo Tortora affrontò il processo dichiarandosi sfrontatamente «estraneo», non semplicemente innocente, e affermando l’indecenza di quelle accuse nei suo confronti. Era vero: il nome sulla famosa agendina non era il suo, la storia dei centrini di Portobello una calunnia, i pentiti lo avevano accusato falsamente. Dopo una prima condanna a dieci anni, fu assolto con formula piena dalla Corte d’Appello di Napoli il 15 settembre 1986. Morirà due anni dopo. Ma il processo e la distruzione di Tortora furono la prova generale di un sistema alimentato da un’opinione pubblica crudele e spietata. I processi dividono sempre, hanno una struttura classica che è fatta per dividere e contrapporre l’umanità tra innocentisti e colpevolisti. Una delle ragioni per cui esiste il principio di non colpevolezza è proprio evitare che questo gioco – perché è un gioco, non diverso dalle discussioni sulle formazioni da mettere in campo per un derby – non costi la pelle a chi ci si trova in mezzo.
Allora, invece, vi fu una generale rincorsa ad abbattere Enzo Tortora, in cui giocarono un ruolo anche l’antipatia e lo snobismo verso il rappresentante di una cultura televisiva che forse veniva già riconosciuta come estranea e nociva. Tortora fu arrestato nell’ambito di un’operazione che portò in carcere più di ottocento persone, duecento delle quali verranno poi scarcerate (alcune dopo due mesi) perché coinvolte per pura omonimia. Le accuse a Tortora divennero così l’architrave dell’attendibilità di quei pentiti, e quell’indagine gli si strinse addosso quando appariva sempre più evidente che le prove a suo carico – al di là delle mitomanie che presero piede sui giornali– erano sostanzialmente inconsistenti. Tra coloro che sostennero immediatamente Tortora nel suo diritto alla presunzione di non colpevolezza e alla dignità, oltre ai radicali di Marco Pannella, ci furono due uomini molto diversi tra loro: un amico di Tortora, suo compagno nel partito radicale, e l’altro che Tortora non lo conosceva nemmeno, e neppure guardava la televisione.
Era il 7 agosto del 1983 quando sul Corriere della Sera comparvero due editoriali firmati da Leonardo Sciascia e da Giorgio Manganelli.
Sciascia conosceva Tortora da tempo, esiste un epistolario tra i due, conservato dalla Fondazione Sciascia a Racalmuto, da cui emerge un rapporto affettuoso e rispettoso, che nasce nel 1958 e prosegue intensificandosi proprio durante le vicende dell’arresto e del processo, chiudendosi con un epitaffio. Sciascia scriverà molto del processo, dell’atteggiamento della stampa e dei giornali nei confronti di Tortora e ne proclamerà l’innocenza («Non mi chiedo: E se Tortora fosse innocente? Sono certo che lo è»). E non aveva dubbi: «Il caso Tortora non sta soltanto nell’angosciosa vicenda che lui sta vivendo: è il caso del diritto, è il caso della giustizia».
Giorgio Manganelli non conosceva Enzo Tortora, non guardava la televisione, ma anche lui si trovò a denunciare quello che stava succedendo. «Quando Tortora venne arrestato ci fu una reazione collettiva che merita un solo nome: linciaggio», sottolineando uno dei caratteri antropologici dell’italiano, che ha paura della giustizia per se stesso, ma non appena vede una persona nota «stritolata in quell’ingranaggio prova una sorta di torbida letizia, di giòlito sinistro». Com’è possibile – si chiede Manganelli – che l’italiano, nonostante la presunzione di innocenza, consideri insozzato irreparabilmente chi venga anche solo sfiorato dalla severità del diritto? «Chi va in galera è un delinquente: ma non dovrebbe essere il contrario?».
Non ci siamo spostati di molto, dopo ventotto anni, lo vediamo nel modo in cui la giustizia viene raccontata e percepita. È sufficiente finire sui giornali al momento dell’arresto per subire il trattamento subito da Tortora, riassunto dalle parole di Camilla Cederna: «Se uno viene preso in piena notte, qualcosa avrà fatto». E cosa accadrebbe oggi a Sciascia e a Manganelli che scrivono in difesa di un presunto associato alla camorra? Oggi in quanti voterebbero Enzo Tortora, candidato recluso in un carcere? Cosa si direbbe di Leonardo Sciascia e delle sue critiche all’inchiesta? Tortora fu linciato e massacrato, ma c’erano ancora anticorpi funzionanti, si chiamassero Sciascia, Manganelli, Biagi, Pannella o le cinquecentomila persone disposte a votare Enzo Tortora alle elezioni europee. Quegli anticorpi oggi sembrano essere scomparsi, e sembrano essersi dissolte le condizioni biologiche perché quelle forme di vita sopravvivano.
Il processo Tortora è la prova che un uomo innocente può finire coinvolto in un’indagine in cui non c’entra assolutamente niente sulla base di prove inesistenti, venire massacrato, additato come colpevole, sputtanato e rovinato – professionalmente e umanamente – e alla fine venire assolto. Il caso ha segnato il nostro rapporto con la giustizia, ponendoci davanti alla realtà di un meccanismo fallibile, e che proprio per questa fallibilità deve avere dei contrappesi processuali e umani. La strada verso l’arte del dubbio, la cautela, la presunzione di innocenza è proseguita per pochi anni, poi le telecamere si sono spostate di poco meno di due chilometri, da Via dei Piatti n.8, dove Tortora stava ai domiciliari, a Corso di Porta Vittoria, davanti al Palazzo di Giustizia, ed è arrivata Tangentopoli.
Enzo Tortora è sepolto al cimitero monumentale di Milano, sulla sua lapide è incisa l’epigrafe di speranza di Leonardo Sciascia: «Che non sia un’illusione». Ma con le sue ceneri è sepolta, come un contrappeso di realismo e pessimismo, una copia della Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni. Forse perché ricordassimo per sempre che gli untori eravamo noi, non lui.