È morto Marco Pannella, l’uomo che aveva fatto della politica un’opera d’arte, del partito un’installazione itinerante, della sua iniziativa un flash mob permanente. Una performance sempre nuova e in fondo sempre uguale a se stessa, perché incentrata sempre sullo stesso soggetto: lui, con il suo corpo e la sua personalità, le sue passioni e le sue idiosincrasie, i suoi monologhi e i suoi travestimenti. Se Roberto Casaleggio ha rappresentato in qualche misura la via timida al pannellismo, possiamo dire che Marco Pannella ha rappresentato la via sofisticata al grillismo. Più che un politico è stato un performer, un poeta, un artista postmoderno. Non è stato un politico di avanguardia, ma un’avanguardia artistica che ha utilizzato la politica per fare poesia. E così, pur non andando e forse non volendo mai andare oltre percentuali bassissime, salvo brevi sortite subito riassorbite, ha esercitato un’influenza straordinaria sulla cultura politica italiana e sulla cultura italiana tout court.
Non esiste una legge Pannella. Non esiste alcuna riforma associata al suo nome. È difficile immaginare che il suo partito gli possa sopravvivere a lungo. I grandi cambiamenti di cui tutti gli riconoscono la paternità, grazie alle sue famose battaglie referendarie, sono scritti in leggi che c’erano già prima, come divorzio e aborto, o che non ci sono state neanche dopo, come la legalizzazione della droga o l’eutanasia. Eppure l’influenza esercitata da questo strano leader politico-spirituale dell’anticlericalismo italiano, e dal suo stranissimo liberalismo gruppettaro, è indiscutibile. E si è rivelata più volte preziosa, in particolare sulla giustizia e sulla condizione delle carceri e dei detenuti, per quanto, anche qui, gli effetti concreti di questa sua influenza siano rimasti spesso confinati al terreno della comunicazione e della cultura. Nella società dello spettacolo, non è comunque poco.
Raramente nella politica moderna si sono visti un simile prestigio e una simile capacità di influenza così totalmente slegati da qualsiasi carica, ruolo istituzionale o incarico politico di qualche rilievo. In un paese in cui gli anticonformisti sono sempre una maggioranza schiacciante, questo furbissimo, disinteressato, eclettico alfiere della riforma americana del nostro sistema politico è stato sempre unanimemente lodato per la sua capacità di andare controcorrente, poco votato ma sempre applaudito, seguito da una minoranza ma ammirato da tutti. È stato un campione della politica-spettacolo intesa anche come gioco di specchi, maschera, prestidigitazione. Ha messo il simbolo della pace nel logo del suo partito e si è fatto fotografare in divisa militare croata per esortare a intervenire nel conflitto in ex Jugoslavia. È stato, a suo modo, craxiano e grillino. Si è scagliato contro i magistrati di Mani Pulite e contro il «regime partitocratico». È stato un politico di professione e un professionista dell’antipolitica.
È stato, anche in questo fedele al modello americano, un grande predicatore. Ma a ripercorrerne la biografia non è facile capire quale fosse, al fondo, il suo vangelo. Se non, forse, quello di una libertà individuale così integrale da non ammettere – per se stesso e per gli altri, per le proprie idee e per la propria idea di società – nemmeno quelle minime limitazioni pur indispensabili alla costruzione non diciamo di un partito, ma anche solo di un movimento di massa. Fatto sta che a più alte responsabilità, l’Italia che lo ha sempre adorato come il solo grande anticonformista – come quell’unico, autentico genio incompreso che tutti sentivano di essere – non lo ha chiamato mai. Senza dargli con questo, crediamo, un gran dispiacere.