C’è una significativa differenza tra la tendenza della stampa americana ad applicare la desinenza «gate» a qualunque scandalo catturi la sua attenzione e la passione con cui il giornalismo italiano si dedica a edificare sempre nuove Calciopoli, Concorsopoli, Sanitopoli e persino Vallettopoli. È una differenza genetica quella che corre tra l’abitudine americana di stigmatizzare qualunque scandalo con il suffisso del caso Nixon, per associazione con un banale dettaglio di cronaca (Watergate era infatti il nome del complesso residenziale in cui furono effettuate le famose intercettazioni), e l’uso italiano della desinenza “opoli”, a partire da Tangentopoli, per associazione con Topolino.
Negli Stati Uniti, infatti, il più grande scandalo politico-giudiziario della recente storia americana viene usato per enfatizzare la gravità degli scandali successivi. In Italia, invece, ogni scandalo è usato per ribadire l’associazione tra la vita della polis e quella di Paperopoli. Nel linguaggio giornalistico americano il termine di paragone è cioè interno alla stessa storia politica degli Stati Uniti, anche quando è ironicamente applicato ad argomenti del tutto o in parte estranei, dal sexgate che per poco non fece cadere Bill Clinton al più frivolo nipplegate, scatenato dall’inaspettata apparizione televisiva di un capezzolo di Janet Jackson. Da noi lo stesso termine di paragone, Tangentopoli, è una caricatura, cioè a sua volta un’imitazione, il cui modello è preso però dal mondo dei fumetti. A dirlo è il padre stesso del neologismo-capostipite, il cronista di Repubblica Piero Colaprico, che ha spiegato di avere coniato il termine Tangentopoli nel ’91, per descrivere un piccolo scandalo milanese i cui protagonisti gli sembravano goffi e maldestri come tanti Paperino, per rispolverarlo poco dopo, con l’esplosione dell’inchiesta Mani Pulite. Ma è chiaro, come riconosce lo stesso Colaprico, che il termine doveva da tempo «essere nell’aria». E probabilmente anche il suo primo significato era diverso.
Se infatti domandassimo a bruciapelo a qualunque cittadino italiano dove si trovi questa fantomatica Tangentopoli, la risposta sarebbe senza dubbio che Tangentopoli è, semplicemente, l’Italia. E questo in effetti l’immagine ha finito per rappresentare: la faccia nascosta (si fa per dire) della politica italiana, la polis delle tangenti. Ma in origine, e cioè quando l’inchiesta Mani Pulite prese avvio, quella città non poteva che essere Milano. All’estensione dello scandalo, da locale a nazionale, seguì dunque l’estensione della metafora: un progressivo slittamento semantico che l’ha riportata lì dove in fondo era nata, e dove pertanto l’aspettava quel diffuso e antichissimo pregiudizio popolare contro la politica, i potenti e lo stato di cui era la figlia naturale. L’idea cioè che nemmeno nel male, nella corruzione, nello scambio di tangenti, alla politica italiana possa essere riconosciuta alcuna forma non diciamo di grandezza, ma perlomeno di serietà. Anche la solennità della tragedia ci è negata, e da noi stessi, convinti come siamo di meritare soltanto gli sberleffi della farsa. Come farsesca è non a caso qualsiasi soluzione siamo soliti definire «all’italiana» (in quanti altri paesi è riscontrabile una simile abitudine?).
Da Tangentopoli in avanti, del resto, la politica italiana è stata esattamente questo: una tragedia che si rappresenta quotidianamente in forma di farsa. Attorno alla cosiddetta questione morale sono nati, defunti e risorti interi partiti, dall’Italia dei valori di Antonio Di Pietro alla Lega di Umberto Bossi, fino ai Cinquestelle di Beppe Grillo. Il registro comico, come si vede, non è mai stato abbandonato: gli attori possono cambiare, ma la farsa deve continuare.
Qui però sta anche l’enigma dell’intera vicenda. Infatti, a dispetto di tanti partiti e movimenti nati proprio all’insegna del necessario rinnovamento morale, e nonostante da quasi un quarto di secolo la questione morale sia l’argomento pressoché unico del dibattito politico, non sembra che nel frattempo la situazione, dal punto di vista etico, sia migliorata granché. Tanto da autorizzare il sospetto che tra i due fenomeni sussista semmai una correlazione inversa, e cioè che l’abuso retorico della questione morale contribuisca ad alimentare comportamenti di segno opposto. Che l’Italia, prima e più che il paese delle tangenti, sia insomma il paese dell’ipocrisia. Che cioè tante campagne e tante grida d’indignazione contro la casta e contro i corrotti non servano a isolare politici di dubbia integrità, ma ad assolvere i loro elettori. Ad assolverli di tanti piccoli e grandi peccati, dall’evasione fiscale all’abuso edilizio, dalla richiesta di condoni alla ricerca di raccomandazioni e privilegi presso quegli stessi politici ferocemente denigrati a cena, al bar o sui social network, e non a caso sempre trionfalmente rieletti.
D’altra parte, se gli è toccato di vivere in una vera e propria città delle tangenti, in una Gotham City della corruzione politica, cos’altro potrà mai fare il cittadino comune, se non cercare riparo e protezione, come potrà, dai tentacoli di una simile piovra? Questa è la grande giustificazione fornita da tutte le città immaginarie costruite dalla nostra cattiva coscienza.
Alla perenne crisi economica e finanziaria dell’Italia, da ormai venticinque anni, si accompagnano ricorrenti campagne contro sprechi e corruzione della politica. Se tali campagne continuano ancora oggi a riscuotere tanto successo, tuttavia, non è perché giornalisti indignati e demagoghi arrabbiati abbiano capito che la festa è finita, ma perché non vogliono che finisca. O almeno non per loro. A rendere inespugnabili le mura di Tangentopoli, insomma, non è un manipolo di corrotti, ma un esercito di ipocriti.