La Roma degli anni settanta era, forse più di quanto riusciamo a ricordare oggi, una città profondamente ferita: dalla criminalità organizzata (erano gli anni della banda della Magliana), dal terrorismo (tra il 1976 e il 1985 Roma contò 48 morti, un’infinità di feriti, attentati, manifestazioni e scontri tra dimostranti e forze dell’ordine), ma anche dal predominio assoluto dell’abusivismo edilizio. Roma era infatti la «metropoli spontanea», cresciuta attorno al suo nucleo storico in gran parte proprio grazie a (o a causa di) un’edilizia abusiva che si sviluppava al di fuori di ogni logica o programmazione urbanistica.
Era la cosiddetta edilizia fai-da-te fatta di baraccopoli o di autocostruzione abusiva ai margini delle strade consolari e lungo le ferrovie1, vecchie borgate in cui edifici in muratura ormai fatiscenti si alternavano a baracche malsane e a palazzine di nuova costruzione. Tutto intorno vicoli fangosi, fogne a cielo aperto, buio e degrado. E naturalmente mancavano gli allacci all’acqua e all’elettricità, per non parlare degli autobus.
Basta rivedere un film come Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola, o il documentario girato negli anni settanta dal comitato di quartiere Quadraro Vecchio (disponibile su Youtube) per comprendere la gravità e la vastità di un abusivismo che, come scriveva Italo Insolera nel suo Roma Moderna, «non è più a questo punto uno dei fenomeni di Roma: è il modo stesso di essere della città». Roma era anche una città stretta nella morsa della crisi economica, con un bilancio in rosso profondo (oltre 4000 miliardi di lire) e che soffriva per una diffusissima corruzione a tutti i livelli di governo2.
Nel 1976 Giulio Carlo Argan aveva sessantasette anni e sembrava aver già raggiunto ogni obiettivo: era docente universitario e storico e critico d’arte noto e riconosciuto nel mondo; era stato, in gioventù, funzionario delle belle arti, contribuendo ampiamente alla redazione della legge per la tutela del patrimonio culturale; aveva pubblicato testi imprescindibili che spaziavano da Borromini a Henry Moore, dalla Bauhaus al Beato Angelico, per non parlare dei volumi della Storia dell’arte italiana, sicuramente il più noto manuale di storia dell’arte mai pubblicato in Italia. E invece, nel giungo 1976, Giulio Carlo Argan, candidato come indipendente nella lista del Partito comunista, viene eletto, con 16.577 voti, consigliere comunale a Roma.
Le amministrative del 1976 per Roma rappresentano un vero tsunami politico: il Partito comunista passa dal 25,4% del 1971 al 35,4 e conquista 30 seggi in Campidoglio (ben 9 più della consiliatura precedente). La Democrazia cristiana, in calo, è distanziata di quasi 2 punti e mezzo e di 3 seggi; il Psi arretra di un seggio; crolla il Psdi; tiene il Patito repubblicano e Democrazia proletaria conquista un seggio.
Si erano concretizzate tutte le condizioni affinché Roma potesse avere il suo primo sindaco non democristiano dal dopoguerra e in effetti l’8 agosto – dopo quasi due mesi di trattative condotte da Luigi Petroselli – Argan fu eletto sindaco, grazie ai 39 voti dei consiglieri di Pci, Psi, Psdi, l’astensione del consigliere radicale e le schede bianche della Dc, di Dp e del Pri (che in seguito avrebbe dato l’appoggio esterno alla nuova giunta). Contrari i voti di Msi e Partito liberale.
Se l’idea che Argan potesse essere il candidato ideale a diventare sindaco – qualora le elezioni fossero andate bene – di una città tanto difficile e sofferente era nella testa di Luigi Petroselli, segretario del Partito comunista romano e capolista alle elezioni comunali, già da diversi mesi prima, in verità lo storico dell’arte non fu la prima scelta. In prima battuta, infatti, la proposta di candidatura era stata fatta al sociologo Franco Ferrarotti che però, come testimonia lui stesso, rifiutò per continuare gli studi.
Per quanto oggi possa apparire sorprendente che la politica abbia voluto attingere con tanta caparbietà proprio al mondo degli intellettuali e della cultura (e altrettanto ci stupiamo perché quei mondi rispondevano positivamente), la sorpresa aumenta quando ci accorgiamo che la candidatura di Argan non fu un caso isolato e tantomeno il tentativo di rappresentare carismaticamente un pezzo di società a sua volta in cerca di una qualche forma di investitura o di sostegno a interessi particolari attraverso la politica. Ma gli intellettuali non erano, scrive Lucio Lombardo Radice neanche un «fiore all’occhiello» o uno strumento di autoredenzione di una politica alla ricerca di sangue nuovo e, possibilmente, puro.
E, infatti, nel 1976 furono tanti, a Roma, gli artisti, i professionisti, i docenti universitari, che provarono, insieme ad Argan a diventare consiglieri comunali: l’urbanista Piero della Seta, Ugo Gregoretti (che si dimise dopo due anni), Giancarlo Sbragia, Lucio Lombardo Radice, Maria Carta (cantante folk piuttosto nota in quegli anni), Vittorio Bachelet (che pochi mesi dopo venne eletto vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura), l’architetto paesaggista Vittoria Calzolari, il giovane Renato Nicolini. Accanto a loro occupavano gli scranni dell’Aula Giulio Cesare politici di professione del calibro di Oscar Mammì, Luigi Petroselli, Ugo Vetere, Giulio Andreotti, Ugo La Malfa, ma anche l’allora ventunenne Walter Veltroni, Carla Capponi, Luciana Castellina3.
Alcuni di quegli intellettuali erano stabilmente impegnati in politica (taluni erano pezzi importanti del gruppo dirigente del Pci) ma per molti altri si trattava di un un’esperienza nuova che avrebbe interrotto, o almeno rallentato, il corso dei loro impegni consueti. E anche se alcuni dei nomi di artisti e intellettuali che ho elencato oggi potrebbero dire poco, in quegli anni erano spesso vere e proprie celebrità. La cantante Maria Carta, appena due anni prima della sua elezione al Consiglio comunale, era arrivata fino alla finale di Canzonissima e recitò nel Padrino Parte II di Coppola. Nel 1977 invece interpreta la parte di Maria nel Gesù di Nazareth televisivo di Franco Zeffirelli. Giancarlo Sbragia, poi, era un volto notissimo della tv e un affermatissimo attore e regista teatrale.
Il che ci porta ad un’altra considerazione. Oggi temo sia impossibile anche solo immaginare che nomi di quella levatura e notorietà decidano di impegnarsi con tanta chiarezza e decisione per la cosa pubblica, tanto più in un consiglio comunale. E forse oggi la politica non sarebbe in grado, anche volendolo fare, di imporre nelle proprie liste un tale numero di candidati tanto eccentrici rispetto alle sue dinamiche più tradizionali.
Ci sarebbe molto da dire sul vento dell’anti-intellettualismo che ha percorso e continua a percorrere il nostro paese, e più in generale l’occidente, e che ha contribuito a espellere con ignominia il valore della conoscenza, dello studio, della creatività dal novero delle competenze necessarie (o almeno compatibili) per partecipare a pieno titolo alla vita politica e sociale di una nazione. E ci sarebbe da riflettere su quanto il ruolo di consigliere comunale sia mutato dopo la riforma che ha stabilito l’elezione diretta dei sindaci e che ha ampliato a dismisura la possibilità di attingere per la scelta degli assessori al di fuori del consiglio comunale. Prima della riforma i partiti dovevano necessariamente inserire nelle liste e lavorare a fondo per l’elezione di candidati in grado di ricoprire, a buon bisogno, il ruolo di assessori nei diversi settori dell’amministrazione cittadina, e quindi con un minimo di competenze specifiche o almeno di talento politico. E non sempre ci riuscivano.
E poi, accanto alla questione del decadimento della politica, emerge quello del disimpegno degli intellettuali che negli ultimi decenni, sempre meno e con sempre minore entusiasmo hanno deciso di farsi coinvolgere non tanto e non solo nel dibattito politico, ma nell’agire civico. È pur vero che il livellamento esercitato dai media su persone e temi, minimizzando le differenze, ha comportato la perdita di autorità “morale” degli intellettuali che sono diventati (non tutti e non sempre, è ovvio) pezzi, talvolta essenziali, della società dello spettacolo, rinunciando però a essere artefici per diventare strumenti. Ma questa è un’altra storia.
Fatto sta che in un passato tutto sommato recente si scelse, in un contesto che solo il tempo ci fa ritenere meno drammatico e degradato di quello attuale, di seguire, per governare Roma, una visione complessa e non una semplice tattica. Si partì da un’idea di città, non da un modello preconfezionato, e si mise in campo una squadra fatta di politici, intellettuali, artisti, urbanisti, concordi nel tentare di dare forma a quell’idea, a quell’utopia che è «il contrario laico della provvidenza», come scriveva lo stesso Argan in quegli anni.
Quello che prima Argan, poi Petroselli e poi Vetere, insieme agli assessori e ai consiglieri comunali fecero in quegli anni non fu sempre perfetto o giusto e il senno di poi rende la vista acutissima in questo senso. Ma al termine di quelle due consiliature a Roma erano praticamente sparite le baraccopoli, si erano risanati interi quartieri centrali e periferici, e si era impressa una vera svolta alle politiche per la casa (poi potremmo discutere all’infinito di Tor Bella Monaca, del Laurentino 38, di Corviale e delle torri di Vigne Nuove, ma nulla di simile è stato più fatto a Roma da allora). In pochi anni furono portate l’elettricità e i servizi essenziali in borgate che attendevano da decenni.
Le politiche culturali guidate da Nicolini avevano poi strappato la città dal sonnolento avvilimento dei lustri precedenti, riportandola a una dimensione internazionale fatta di grandi mostre, di Estate romana, di cura per il centro storico. Perché, ancora una volta, è stata la cultura a restituire alla città la dignità che aveva perduto. Si è scritto molto di come l’Estate romana abbia riportato i romani per le strade, abbia spinto gli abitanti delle periferia a riappropriarsi della città intera.
Ma per quelle giunte il risanamento di Roma era esso stesso un progetto culturale. Partiva da un’idea olistica di città in cui tutto si teneva grazie proprio alla cultura, al profondo umanesimo sotteso a ogni scelta amministrativa. Non c’è mostra o museo che possa migliorare lo stato della città se i suoi cittadini sono costretti a vivere in luoghi degradati e non ci sono condizioni materiali di vita abbastanza dignitose in grado di trasformare un abitante in cittadino se mancano biblioteche, buone scuole, parchi pubblici.
Ci vollero, quarant’anni fa, un anziano storico dell’arte e un comunista di provincia per ripensare alla parola politica che, disse Argan con semplicità nel corso di un’intervista, è «la scienza della città: lo strumento cioè della vita e della crescita civile, ideale, morale di una città».
1 Uno di questi “borghi” era quello addossato all’Acquedotto Felice lungo via del Mandrione che oggi, dopo l’abbattimento delle baracche e il risanamento ci offre il panorama surreale dei fornici dell’acquedotto ancora “decorati” da piastrelle.
2 Solo per fare un esempio, il 20 settembre del 1977 i quotidiani annunciarono l’incarcerazione di 25 persone tra funzionari comunali, falsi baraccati, amministratori per uno scandalo legato all’assegnazione illegittima di case popolari costruite per i senza tetto. Ma sono anche gli anni dello scandalo Lockeed, dello scandalo Sindona, lo scandalo dei petrolieri del 1974.
3 Fu invece candidato nelle liste del PCI, ma non eletto, il pittore e illustratore Ennio Calabria.