Per molti anni il potere romano ha avuto il volto di Giulio Andreotti. Era un potere che poggiava su un’antica abitudine alla dissimulazione ironica, al sorriso beffardo, a un’apparenza di cinico fatalismo dietro cui si nascondeva la sfida all’invincibile cinismo del destino. Un gioco di specchi che si rifletteva nei modi e nel corpo stesso del suo principe: quanto di più lontano fosse possibile immaginare dal modello del condottiero classico – o se si preferisce del duce – virile espressione dei più alti valori della romanità. Non può stupire, pertanto, che il ritratto migliore di quel mondo ci venga dalla commedia all’italiana: nella maggior parte dei personaggi dei Mostri, nella nobiltà (anche fisicamente) decadente di Una vita difficile, quella che abbandona la sala da pranzo alla notizia della vittoria repubblicana nel referendum istituzionale, ma forse soprattutto nell’imperitura immagine di Romolo Catenacci, il palazzinaro nostalgico del ventennio in C’eravamo tanto amati, che al giovane avvocato Gianni Perego, deciso a rifiutare le sue offerte in nome di più alti principi morali, dà un’indimenticabile lezione di vita: «No no, ma cos’ho da sta’ a senti’? Non mi diresti la verità. Perché, vedi, tu mo’ stai lottando con la coscienza. Lotta ma nun t’arende’!».
Quando era al vertice del suo potere, Giulio Andreotti amava duettare con la sua caricaturale controfigura sul palcoscenico del Bagaglino. Oggi che il Bagaglino è andato al potere, in nome della lotta alla vecchia politica, scopriamo che a fare la giunta del Campidoglio è ancora quello stesso giro di avvocati romani che ha sempre occupato la prima fila della platea, fisicamente e metaforicamente, che si trattasse di Giulio Andreotti o di Oreste Lionello, della cerimonia d’insediamento del primo governo Berlusconi al Quirinale, con Cesare Previti ministro, o del primo sindaco grillino in Campidoglio, con l’avvocato Pieremilio Sammarco in tribuna d’onore.
Nulla di strano. Soprattutto, nulla di nuovo. C’è tutto un mondo che in questi anni è passato dall’andreottismo al berlusconismo prima, dal berlusconismo al grillismo poi, attraversando indenne ben due rivoluzioni antipolitiche, sempre dalla parte vittoriosa del fronte. Tanto di cappello. E complimenti anche a quella folta schiera di intellettuali, attori, cantanti, che si proclamano di sinistra e che solo adesso, forse, si accorgono di essere finiti tutti lì, alla corte di Romolo Catenacci, e nemmeno al posto d’onore. Del resto, come diceva il vecchio palazzinaro al suo futuro avvocato: «Chi vince la battaglia co’ la coscienza, ha vinto la guera dell’esistenza». E loro, nonostante tutto, hanno vinto.
Basta vedere i commenti degli osservatori e persino degli avversari dinanzi alla crisi della giunta Raggi. Le categorie con cui la sua grottesca, paradossale, istantanea agonia viene analizzata. Il lessico utilizzato da amici e nemici per descriverla: perdita dell’innocenza, fine della diversità, crisi da vecchia politica. Innocenza. Diversità. Vecchia politica. Forse il commento migliore a tutto questo lo ha scritto su facebook Andrea Masala: la verità è che non ci meritiamo manco Alberto Sordi.
Andreotti e Grillo, Grillo e Andreotti. Il potere come maschera e come inganno. Il politico che gioca a fare il comico con la sua caricatura e il comico che gioca a fare il politico con la caricatura di un partito politico. E al centro, naturalmente, non solo dal punto di vista cronologico, lui: Silvio Berlusconi. L’impresario del Bagaglino, il palazzinaro amico e cliente dell’avvocato Previti, l’imprenditore socialista che divenne leader della destra. È la storia della politica italiana dagli anni ottanta a oggi, o forse è semplicemente l’eterna cronaca di un’Italia che dagli anni ottanta non è mai uscita: il potere come maschera e la lotta per il potere come un’interminabile mascherata. Un eterno rovesciamento carnevalesco, dunque fittizio, di tutti i rapporti di potere, in cui il potente finge di abbassarsi al livello del popolo solo per meglio manipolarlo, in cui persino i giovani e meno giovani idealisti che dichiarano di volere tener fede ai propri principi fanno pur sempre parte di quegli onesti tanto amati da Romolo Catenacci, perché «nell’onesti c’è quella purezza che si je capita l’occasione diventano talmente mascalzoni che t’ammollano le fregature mejo de li mascalzoni, diciamo, normali».
Non sarà dunque la crisi della giunta Raggi a cambiare le cose: il finale a torte in faccia, tra le risate del pubblico, ha sempre fatto parte del copione. E sarà sempre apprezzato. Del resto, contrariamente a quanto si ripete a destra e a sinistra, quella crisi non ha nulla delle dinamiche della Prima Repubblica e dei vecchi partiti. Semmai, la crisi capitolina è la crisi della nuova politica. Anche perché i vecchi partiti, in Italia, sono scomparsi da anni: il più antico, oggi, è la Lega Nord. Vale a dire esattamente il primo movimento emerso dalla crisi della Repubblica, all’inizio degli anni novanta, come il nemico della vecchia politica e dei vecchi partiti. E oggi persino il Partito democratico, nei suoi manifesti per la campagna referendaria, invita a votare Sì con lo slogan «Basta con la vecchia politica – noi cittadini possiamo cambiare l’Italia». Chi è dunque il nuovo, chi il vecchio?
La verità è che oggi la cultura dell’antipolitica caratterizza tutti i partiti, tutti i giornali, tutti gli intellettuali, i cantanti, gli attori e in generale coloro che hanno qualche voce nel dibattito pubblico. Salvo eccezioni, che però al momento non ci vengono in mente, le uniche differenze sono differenze di grado. Lo spirito del tempo è quello. Come dimostra anche il fatto che tanto il Sì quanto il No al referendum si fronteggiano fondamentalmente con gli stessi argomenti. Per questo è importante che nel campo del Sì emerga e si faccia sentire anche un’altra voce, che possa dare agli elettori almeno la speranza di un finale diverso, che si ponga esplicitamente l’obiettivo di una ricostruzione delle basi politiche e culturali della Repubblica, portandoci fuori da questa tragica messinscena che da venticinque anni si ripete ininterrottamente, sempre uguale a se stessa, e sempre in forma di farsa.