«Stammi a sentire, se io sbaglio il voto questa volta va a finire che non mangio e non mangiate per una decina d’anni». Così risponde Ugo Fantozzi alla moglie Pina, che gli porge un panino, immerso da giorni in un delirio mistico elettorale in cui scorrono davanti a lui Spadolini, Longo, Pannella, Almirante, come fantasmi dickensiani. Devo dire che anch’io sento in questo momento il peso della scelta, e come Fantozzi ho passato le ultime settimane chiuso in una stanza a studiare, con i fantasmi della riforma costituzionale, della deriva autoritaria e dei padri costituenti.
Premetto che ho molti amici che votano No, ma le posizioni del Sì e del No si sono attorcigliate in una lotta nel fango tra strumentalizzazioni e populismo, in una rincorsa verso il basso che ha reso questa campagna elettorale particolarmente brutta (almeno per me) anche perché al centro non ci sono diritti assoluti, l’autodeterminazione di scelte come l’aborto o il divorzio, ma una legge – nonostante sia la legge fondamentale – fatta di articoli, commi, sottocommi e richiami interni.
Non ho bisogno di essere mobilitato, sono favorevole a una diversa forma di bicameralismo e al riordino delle competenze tra Stato e regioni, e non credo che questa riforma costituzionale apra spazi a una deriva autoritaria, perché quegli spazi già esistono. Il brodo di coltura della deriva autoritaria lo si ritrova nella progressiva erosione di ogni legittimazione della democrazia rappresentativa: la crisi economica, l’Europa, la furia moralizzatrice del populismo pentastellato e il disperato tentativo di inseguirla verso la cancellazione di ogni corpo intermedio hanno già costruito praterie di consenso, come dimostra la gara al ribasso sui costi della politica, sui parlamentari come poltrone e altre amenità. Io sono per la rappresentanza parlamentare, sono per l’assenza di un vincolo di mandato e per la responsabilità, per i costi della politica, la libertà di espressione e la tutela dei diritti, e sono per una storia di questa repubblica che parte da lontano e ha fatto molto, rifiutando la retorica contrapposizione tra vecchio e nuovo.
Sono però convinto che una riforma costituzionale che renda il sistema più razionale, che consegni al Parlamento la possibilità di funzionare limitando il ricorso alla decretazione d’urgenza, e semplificando il procedimento legislativo, possa restituire alla rappresentanza politica una parte della sua legittimazione. È una riforma che muta il quadro parlamentare ma mantiene intatto il sistema di pesi e contrappesi costituzionali, e introduce strumenti di inclusione con le modifiche al sistema referendario e alle leggi di iniziativa popolare.
Si dovrebbe votare No, si dice, perché l’articolo 70 è scritto male, ma l’articolo deve ridisegnare il processo legislativo, non vincere un Pulitzer.
Piero Calamandrei, nel suo primo intervento all’Assemblea Costituente, raccontò che nel 1801 Ugo Foscolo fu incaricato dal Ministero della guerra della Repubblica Cisalpina di preparare un progetto di Codice penale militare; la relazione introduttiva al progetto si intitolava «Idee generali del lavoro», nella quale Foscolo scriveva di voler compilare l’opera «in uno stile rapido, calzante, conciso, che non lasci pretesto all’interpretazione delle parole, osservando che assai giureconsulti grandi anni e assai tomi spesero per commentare leggi confusamente scritte. Si baderà ancora a una religiosa esattezza della lingua italiana». Questo progetto di Costituzione – disse Calamandrei rivolgendosi ai costituenti – si sente che non è stato scritto da Foscolo.
La ragione del No legata alla qualità dei padri costituenti non la prendo in considerazione: è la riforma costituzionale della politica contemporanea. Terracini, De Gasperi, Togliatti, Calamandrei sono morti e non torneranno più. Se la riforma la proponessero i meravigliosi ragazzi pentastellati o Salvini il confronto non reggerebbe comunque. Quelle stature umane e intellettuali sono irripetibili e sapevano di esserlo, probabilmente. Per questa ragione hanno elaborato un processo legislativo complesso come quello costituzionale, in cui l’ultima parola viene lasciata al popolo.
L’obiezione che nel nuovo Senato finirebbero sindaci e consiglieri regionali corrotti a prendersi l’immunità non è solo un argomento idiota, ma è l’espressione precisa di quel sentimento populista che conduce dritti alla deriva autoritaria. Non si capisce come si possa contemporaneamente sostenere la corruzione dei consigli regionali e respingere la riforma perché priva le regioni di alcune competenze.
Ma oltre alla riforma si devono considerare anche le conseguenze del voto referendario, e i vantaggi politici di una vittoria del Sì e del No, quello che succederà fuori, insomma.
Non credo al baratro, al disastro, alla rivoluzione, ma non penso nemmeno che l’Italia sia sterilizzata e immune alle tendenze che si sviluppano in Europa. I partiti populisti e di destra hanno rafforzato il proprio consenso dappertutto e nei prossimi mesi si voterà in Austria, Francia, Germania. L’acqua in cui nuotiamo ci sta bollendo intorno. In questo quadro, penso che in caso di vittoria del No batteranno cassa i populisti, gli anti-europeisti, quelli che pensano che accogliamo troppi migranti. A me bastano i tweet di Matteo Salvini per decidermi a votare Sì. Del resto non posso nemmeno prendere seriamente la difesa di una Costituzione di quelli che gridano al premier non eletto dal popolo e vorrebbero abbattere ogni forma di rappresentanza politica, abolire l’articolo 27 e moralizzare il paese con la galera. Ma non bastano un sì o un no.
La nostra democrazia è fondata sul patto costituzionale e sul riconoscimento reciproco di chi vi ha preso parte e del risultato ottenuto. Il 4 dicembre vinceranno il Sì o il No, ma il 5 dicembre il Sì dovrà recuperare chi ha votato contro per ricondurlo all’interno di quel patto; mentre il No dovrà costruire al suo interno un recinto tra le diverse posizioni, rigettando ogni tentazione populista e anti-europeista, perché è normale che il voto polarizzato raccolga insieme compagnie eterogenee.
Un’ultima cosa per chi vede questo voto come una prova contro l’establishment. Negli Usa si è votato contro l’establishment, e così, invece di parlare di estensione dei diritti o di riforma del sistema penale, ora si interrogano sul nome corretto con cui chiamare i nazisti dell’Illinois.