Dopo la vittoria del No al referendum del 4 dicembre, l’attacco finanziario all’economia italiana, in corso da tempo, ha conosciuto un’accelerazione. Già il mattino del 5 dicembre l’amministratore delegato francese di Unicredit, Jean Pierre Mustier, annunciava la cessione di Pioneer, asset manager del gruppo con 225 miliardi di euro di risparmio gestito, ad Amundi, società di gestione di Crédit Agricole, terza banca transalpina, respingendo l’offerta congiunta di Poste Italiane e Cassa depositi e prestiti.
L’evento più spettacolare, però, è stato l’avvio di una scalata ostile a Mediaset da parte del gruppo Vivendi, colosso francese di contenuti per televisione, musica e cinema, controllato da Vincent Bolloré. Tra il 12 e il 22 dicembre Bolloré ha annunciato successivi investimenti azionari fino a detenere il 29% del capitale sociale. La scalata si è fermata, per il momento, solo grazie alle prese di posizione ferme di Agcom e del governo, che hanno avanzato un’obiezione non secondaria: se l’acquisizione del controllo di Mediaset, da parte di un soggetto dell’Unione europea, non può essere fermata in modo diretto (ma si tratta pur sempre di un’azienda concessionaria di servizio pubblico!) tuttavia Vivendi è già azionista di riferimento di Telecom Italia, con il 25%. La concentrazione del controllo delle due aziende in capo a un solo soggetto travalicherebbe i limiti antitrust fissati dalla legge Gasparri.
Se Bolloré, come ventilato, intendesse cedere il controllo di Telecom per liberarsi le mani in vista di una eventuale opa su Mediaset (si parla di Orange, ex France Telecom, tuttora controllata dal governo francese) il governo potrebbe (e dovrebbe) fare uso del golden power, un potere di veto ammesso dall’Unione europea, e bloccare l’operazione su Telecom Italia, che ha al suo interno un’infrastruttura strategica come la rete telefonica. Bolloré è uomo di relazioni finanziarie ramificate, in Italia è giunto al seguito di Antoine Bernheim che, con la banca Lazard, affiancava sin dagli anni 70 Mediobanca nel controllo delle Assicurazioni Generali. È l’intera struttura del sistema finanziario italiano, quindi, a essere investita da queste scosse sismiche: Bolloré è tuttora un azionista cruciale, con l’8% delle azioni, di Mediobanca, che a sua volta controlla, con solo il 13,4%, il gruppo Generali, guidato dal francese Philippe Donnet. Con 53 miliardi di euro di polizze vita tra Italia, Francia e Germania, 2 miliardi di utile netto nel 2015 e oltre 430 miliardi di euro di risparmio gestito, le Generali sono un autentico gigante della finanza europea.
Ma chi sono gli altri azionisti del patto di sindacato che controlla Mediobanca? Per l’appunto Unicredit, con l’8,5%, e il gruppo Mediaset, con il 4,3%. Mediaset, abbiamo visto, è sottoposta a un tentativo di scalata e Unicredit, seconda banca italiana, con forte presenza in Germania, Polonia e Austria, ha un azionariato diffuso e instabile: fondi americani (Capital research con il 6,7% e Blackrock con il 4,8%), fondi degli emirati arabi (Aabar con il 5%), fondazioni bancarie italiane sparpagliate per un complessivo 8/9%, banca centrale libica con il 3%. Nonostante 2 miliardi di utile netto nel 2015 e fondamentali in ordine, il 13 dicembre ha annunciato un aumento di capitale di oltre 13 miliardi, che metterà nuovamente in discussione il suo assetto di controllo (oggi la banca quota solo 17 miliardi, meno del valore del capitale sociale).
Infine, come noto, dopo il referendum il Qia, fondo di investimento del Qatar, si è rimangiato la promessa di investire un miliardo di euro nell’aumento di capitale del Monte dei Paschi di Siena e questo ha decretato il fallimento del tentativo di salvataggio “di mercato” della banca senese, definito a luglio scorso, con la regia di JP Morgan, per il quale era stato nominato il nuovo ad Marco Morelli. Tale tentativo, su indicazione della Bce, prevedeva un aumento di capitale di 5 miliardi di euro accompagnato dalla cessione di oltre 9 miliardi di crediti deteriorati entro il 31 dicembre. La vicenda Mps ha avuto sviluppi convulsi: Morelli, il 7 dicembre chiede una proroga alla Bce che gli viene negata il 13 dicembre, il 22 il governo Gentiloni vara il decreto che mette a disposizione della Banca d’Italia 20 miliardi per operazioni di «ricapitalizzazione precauzionale» delle banche in difficoltà. La vigilanza della Bce, senza neanche far passare il Natale, comunica al Monte dei Paschi che non basteranno più 5 miliardi, ma l’aumento di capitale potrebbe dover arrivare a 8,8 miliardi.
Che sta succedendo? Abbiamo un problema con i francesi? Con l’Unione europea? Con la finanza internazionale? O più in generale con il nostro stare al mondo? La Francia è un paese con molti problemi, come noi, solo ben organizzato e dotato di una classe dirigente coesa e rispettosa dell’interesse nazionale. Sicuramente il referendum è stato vissuto dalla burocrazia di Bruxelles e dai circuiti finanziari come un verdetto negativo sulle possibilità dell’Italia di risollevare la propria economia in base allo scambio con la Ue “flessibilità di bilancio in cambio di riforme” (intese come interventi normativi per migliorare la produttività). E certo le fulminee dimissioni di Renzi hanno dato la sensazione che si aprisse una nuova fase di governi tecnici con i quali i raider finanziari e le burocrazie di Bruxelles hanno sempre avuto partita vinta. L’avvio autorevole e determinato del governo Gentiloni ha dato invece uno stop, ma non basterà a dissipare quella sensazione se il dibattito politico continuerà a essere solo incentrato sulla data delle elezioni.
I nodi che emergono da tutte queste vicende sono però antichi, strutturali, aggravati dalla lunga stagnazione economica del paese e resi quasi irrisolvibili dal modo in cui, con la liquidazione dell’Iri negli anni 90, la trasformazione delle banche incentrata sulle fondazioni bancarie, la rinuncia al ruolo sistemico di Mediobanca, le privatizzazioni realizzate senza un disegno industriale, è stato sconquassato il “sistema paese”, l’assetto finanziario e industriale in cui capitali pubblici e privati collaborano al disegno di uno sviluppo nazionale. In Italia il “sistema paese”, con le banche pubbliche, i colossi dell’industria a partecipazione statale, Iri ed Eni e la loro interazione con il kombinat di imprese private e banche di interesse nazionale guidato da Mediobanca, ha prodotto, tra gli anni 30 e gli anni 80, il miglior management che abbiamo mai conosciuto: grandi figure di dirigenti d’azienda, dotati di sensibilità politica, che hanno consentito al paese di entrare nel G7, pur essendo arrivato con ritardo all’unità nazionale e allo sviluppo industriale.
Avere un “sistema paese” scompaginato è una vulnerabilità che non potremo permetterci ancora a lungo. Se prendono il volo le principali infrastrutture di comunicazione, le industrie culturali, le grandi banche di sistema, i grandi centri di raccolta e impiego del risparmio (per non parlare della siderurgia e dell’industria militare) presto smetteremo di essere una nazione moderna. La scelta di delineare una risposta a queste pressioni finanziarie incentrata sul ruolo di Cassa depositi e prestiti, scelta che da Tremonti a Bassanini a Padoan è stata portata avanti con inventiva e determinazione, è stata giusta, e comunque inevitabile data l’inconsistenza dei capitali privati italiani. Vista però l’accelerazione di questi mesi, e i rischi di collasso cui stiamo assistendo, questa scelta non potrà più avere carattere emergenziale ed episodico, né basarsi su singole intuizioni o relazioni individuali. Dovrà invece essere accompagnata da una strategia deliberata, che non abbia timore di mettere in campo lo Stato quando necessario, né di difendere, pur in una visione europeista, il radicamento nazionale delle imprese strategiche. E che non esiti a dare un assetto strutturato alla rete di partecipazioni e di collaborazione “istituzionale” tra banche, imprese sia pubbliche che private, autorità indipendenti e strutture del governo che hanno bisogno di essere nuovamente ricondotte a “sistema”.