La prima richiesta popolare per la costituzione di una banca pubblica in Italia risale al 1364 e nacque nella Repubblica di Venezia. I disastri bancari lagunari erano talmente frequenti che nemmeno l’introduzione, nel 1270, di una cauzione per l’esercizio dell’attività bancaria a tutela dei depositanti – prima di 3000 lire, poi accresciuta a 5000 lire nel 1318 – riuscì a indurre un comportamento più appropriato da parte dei banchieri e ad arginare la lunga catena di fallimenti, con le inevitabili ricadute sui depositanti. La voce popolare chiese così di togliere la licenza di esercizio delle banche ai privati e affidarla allo Stato. Ma allora – come oggi, o almeno fino a poco tempo fa – non se ne fece nulla: fu nominata una commissione di saggi che concluse i suoi lavori senza prendere posizione. L’unica decisione – presa nel 1374 – fu quella di vietare ai banchieri di prendere parte al commercio del rame, dello stagno, del ferro e di molte altre merci, tutte caratterizzate da frequenti oscillazioni di prezzo che stimolavano l’attività speculativa dei banchieri privati. La pena per chi violava questo divieto era sia pecuniaria che restrittiva delle libertà personali (un anno di carcere). Con il decreto veniva anche incoraggiata la delazione: ai pentiti che accusassero i loro colleghi non solo era rimessa ogni pena, ma si concedeva loro fino a un terzo dell’importo delle pene pecuniarie comminate ai contravventori. La ferocia di questa misura durò ben poco: già nel 1386 la misura venne sospesa, per poi scomparire del tutto quattro anni dopo.
Nel 1403, allo scopo di impedire l’utilizzazione dei depositi a fini di lucro personale dei banchieri privati, si stabilì addirittura che essi non potevano fare commercio per un ammontare superiore al 150% del patrimonio investito in titoli di Stato. Ma proprio sui titoli pubblici i banchieri facevano le loro più ardite speculazioni e, volendo rispettare il vincolo introdotto, si sarebbero avute inflazioni e deflazioni del credito assai profonde a seconda che il valore dei titoli fosse stato alto o basso. Fu per questo motivo – oltre al fatto che il decreto non stabiliva il criterio della valutazione del patrimonio tenuto in titoli di Stato – che anche questa misura restò largamente inapplicata. Destino identico ebbero anche le misure volte a ridurre il frequente ricorso alle cambiali fittizie e di comodo, ovvero quelle emissioni di fedi di deposito non garantite da un effettivo deposito in contante. Nel 1421 se ne vietava l’uso, ma pochi anni dopo il divieto veniva abrogato.
La Serenissima, non riuscendo ad arrestare il fiume in piena della banca privata, non trovò di meglio che tornare a rimettere mano alle garanzie sui depositi, nella speranza che queste da un lato garantissero i depositanti e, dall’altro, fornissero un disincentivo ai comportamenti più rischiosi. Nel 1455 si innalzò così la cauzione a 20mila ducati e nel 1523 la si portò addirittura a 25mila. Ma da sola questa misura riuscì a fare ben poco e i fallimenti continuarono a ritmi impressionanti. Il risultato di due secoli di attività bancaria nella Serenissima era spaventoso: delle 103 banche operanti nella Repubblica di Venezia dal XIII secolo al 1550, oltre 90 erano fallite. Nel periodo di massimo dispiegarsi della supremazia commerciale e finanziaria italiana, l’impeto delle innovazioni finanziarie introdotte da audaci banchieri privati era un fiume in piena, e la volontà delle autorità pubbliche risultavano volenterose e istituzionalmente ingegnose nel cercare di arginare il fenomeno, ma tutto sommato impotenti.
Fu così che, dopo oltre due secoli dall’iniziale richiesta, arrivò finalmente il momento della banca pubblica. La sua istituzione però non giunse a contrastare l’attività bancaria privata, ma a sostituirla, visto che essa era ormai quasi scomparsa a causa dei fallimenti. Il pubblico sorse quindi sulle rovine del privato, dopo che ai suoi eccessi si era cercato invano di far fronte con una intensa attività regolamentativa, che vide i controlli diretti e le proibizioni alternarsi all’imposizione di riserve obbligatorie e coefficienti patrimoniali. Fu così che il 28 dicembre 1584 il Senato di Terraferma deliberò l’istituzione di un banco pubblico detto «della Piazza di Rialto». La delibera esplicitava che l’attività bancaria, anticamente praticata nella Repubblica, fosse stata condotta assai malamente dai privati, con grave nocumento del nome veneziano «appresso l’estere nazioni», «con grave danno universale e confusione di tutte le cose». E, allo scopo di mantenere intatti i flussi del commercio «ma con compita sicurtà di danaro e dell’haver di cadauno, e con salvezza dell’honor pubblico, come hanno anco supplicato li mercanti di questi piazza, in nome del Spirito Santo restando nell’avenire proibito del tutto ai particolari il levar più banchi, sia levato un Banco Publico della Piazza de Rialto». Malgrado la solennità della promulgazione della delibera del Senato, il banco non nacque veramente per i contrasti che la sua istituzione suscitò nei ceti interessati, cioè nei rentier e nei vecchi banchieri privati. Così Venezia restò senza banche e nell’aprile dell’anno seguente il Senato fu costretto ad una imbarazzata marcia indietro e a revocare la delibera istitutiva.
Per la vera e propria istituzione del banco bisognerà attendere il 14 aprile 1587 quando il Senato pubblicò una nuova delibera. In essa si ricordavano il fallimento dei banchi privati con nocumento «di tanti pupilli e vedove» e «gente miserabile», quasi fossero stati investiti da un bail-in ante-litteram. E poi si individuava il colpevole nella «dilatione dei negotii, che sono fatti dalla commodità e facilità della penna, che si trovano in mano, per la quale sogliono li particolari banchieri abbracciar tanto, che non potendo supplir al peso della piazza, conducono se stessi al precipitio». Si rendeva quindi necessario provvedere a creare un banco che non avesse, come i privati, la «certezza di ruina» (ovvero di fallimento), ma che privo di alcun interesse particolare, servisse solo «al comodo della città». La grande novità rispetto al progetto che era naufragato nel 1584 stava nel fatto che il banco veniva dato in gestione a un privato, pagato dal Banco, costretto a prestare una garanzia uguale a quella prevista per i banchieri privati (per evitare l’azzardo morale), sottoposto a strettissima vigilanza da parte dei ragionieri pubblici (visto che in ultima istanza la responsabilità era della Repubblica) e non beneficiario di eventuali profitti del banco (niente stock-option e ricchi premi). Il Banco della Piazza di Rialto ebbe un tale successo che durò fino alla caduta della Repubblica di San Marco, nel 1848. La sua governance – a prima vista così poco attraente – fu talmente invidiata da venire applicata, praticamente identica, al celebre Banco di Amsterdam, che fece la fortuna dell’impero olandese e durò fino all’inizio dell’Ottocento.