Non sappiamo se siano già il frutto della nuova «fase zen» annunciata all’indomani della sconfitta referendaria, ma le considerazioni autocritiche pronunciate da Matteo Renzi nella sua intervista domenicale a Repubblica autorizzano qualche speranza per il dibattito che si sta aprendo nel Partito democratico. E non solo per la sua solenne promessa di metterci «meno slide e più cuore» (che comunque è sempre meglio del contrario). Certo è ancora presto per pronosticare il risolversi di tutte le tensioni e le recriminazioni tra le diverse correnti democratiche nel nirvana dischiuso dal nuovo Renzi, passato dalla linea della rottamazione senza incentivi dei vecchi dirigenti alla religione della gentilezza amorevole verso ogni essere vivente. In ogni caso, è un buon inizio. A condizione, però, che tale dibattito non si richiuda subito, dopo avere ripetuto stancamente il copione di questi ultimi tre anni (come hanno fatto purtroppo le prime reazioni).
Ci riferiamo anzitutto all’eterna tenzone tra gufi e cinciallegre che ha funestato il dibattito politico e ornitologico di questi anni. Insulsa e interminabile disputa tra uccellacci del malaugurio sempre pronti a ricordarci che, come diceva un’antica legge, se qualcosa può andar male, lo farà (ovviamente per colpa di Renzi) e pappagalli ammaestrati capaci solo di ripetere che questo è il migliore dei mondi possibili (ovviamente per merito di Renzi).
Di fronte ai gravi problemi che attanagliano le forze di sinistra, in Italia, in Europa e in tutto l’Occidente democratico, non c’è più spazio per i capricci e le recriminazioni di chi ha avuto il modo ed anche il tempo di cambiare, e l’ha passato a improvvisare (come cantava il poeta, peraltro a proposito di una generazione di quarantenni che alle improvvisazioni di una certa sinistra ha pagato e paga ancora oggi il prezzo più pesante). Non c’è dubbio che molte cose devono essere cambiate, nel modo in cui il Pd e il governo, sotto la guida di Renzi, hanno affrontato la situazione fin qui. E non può fare che bene criticare anche un certo ottimismo di maniera, una certa tendenza a scivolare nei toni della «Milano da bere», particolarmente irritanti per i molti che nel frattempo lottano per non affogare. Tutto giusto. Ma attenzione, perché su un punto, nonostante tutto, ci pare invece che Renzi abbia ancora ragione da vendere: un leader di sinistra deve trasmettere un messaggio di speranza, non di disperazione. Deve infondere fiducia, non seminare sfiducia: questo, piuttosto, lasciatelo fare ai populisti. E semmai criticate Renzi quando li insegue sul loro terreno.
Sarebbe invece una catastrofe se dall’analisi della sconfitta referendaria qualcuno traesse la lezione che il problema è l’ottimismo renziano, al quale una “vera sinistra” dovrebbe sostituire magari una sorta di pessimismo leopardiano, o peggio una vecchia cultura del piagnisteo e del piagnucolio. Se c’è una cosa che certo non farà riconquistare i voti fuggiti per rabbia verso i tanti populismi anti-establishment è quell’atteggiamento paternalista, quella fronte sempre corrugata, quel tono ispirato e fasullo di costante preoccupazione per le sorti del mondo che la sinistra ha fin troppo coltivato nella sua storia recente, e che niente ha a che fare con le sue più profonde radici.
Difficilmente si troverà un manifesto politico più intriso di ottimismo, fede nell’avvenire, fiducia nell’uomo e nelle sue inesauribili capacità di sormontare ogni difficoltà, del Manifesto del partito comunista di Marx e Engels. Persino nel fare la storia di quella borghesia di cui pure voleva abbattere il dominio, come è noto, il Manifesto ricordava con afflato lirico che «essa ha creato ben altre meraviglie che le piramidi d’Egitto, gli acquedotti romani, le cattedrali gotiche». Forse che nell’Europa dell’ottocento le condizioni di sfruttamento e le diseguaglianze non giustificavano rabbia e disperazione, e anche un filino di incazzatura nei confronti degli autori di simili meraviglie? Ovviamente sì.
E allora? A gridare che tutto fa schifo si prenderanno certo gli applausi degli esasperati, ma per costruire con loro una via d’uscita dalla disperazione senza farsi travolgere dalla rabbia, propria e altrui, serve anzitutto la capacità e la forza di sorridere. Serve fiducia in se stessi e nel prossimo, primo essenziale bene pubblico senza il quale non è possibile nessuna forma di associazione umana, nessuno sforzo collettivo, nessuna missione comune. E non era questo il significato più profondo, non burocratico e correntizio, anche di quell’altra vecchia parola d’ordine: unità?
Da questo punto di vista, c’è davvero da augurarsi che la nuova «fase zen» del Pd illumini forte e a lungo l’intero gruppo dirigente.