Da dove viene tutta questa voglia di muri? Questo desiderio di rinchiudersi dietro un doppio giro di cemento e filo spinato? Ci pensavamo destinati a un mondo senza confini, in cui volare costa come una cena in pizzeria: come siamo finiti accartocciati e impauriti a discutere dei modi più efficaci per chiuderci dentro – l’Europa, l’America, il nostro quartiere – lasciando tutti gli altri fuori?
Ero in Irlanda quando si è votato per la Brexit, e mentre sui giornali inglesi si metteva in scena lo psicodramma dell’abbandono, gli irlandesi erano preoccupati di una sola cosa, che non era il mercato comune e non era la fine di un’idea romantica dell’Europa unita. Era il confine con l’Irlanda del Nord. La questione del confine è di vitale importanza per gli irlandesi, che considerano la riunificazione un orizzonte ideale e giuridico, sancito anche dagli accordi del venerdì santo. E perché «the Border», il confine tra Eire e Nord Irlanda – che corre per 480 km, dalle insenature di Loch Cairlinn a quelle di Loch Foyle – era un simbolo di guerra, una presenza ingombrante nel paesaggio irlandese: check-point e soldati che dividevano intere famiglie e un popolo. Con la Brexit diventerà l’unico confine terrestre tra il Regno Unito e l’Unione europea, in un momento in cui i confini sono diventati i punti di rottura delle nostre convinzioni europeiste. Schengen non ha significato solo la riduzione delle attese in aeroporto e del numero di paesi per i quali possiamo dimenticare a casa il passaporto, è stato un passaggio epocale: in un secolo di cortine di ferro, muri, recinti, guerre per i confini e rincorse criminali a rinchiudere, concentrare, escludere, la libertà di circolazione era la promessa di un continente pacificato e della fine dei confini. Era un sogno adolescenziale diventato adulto, la fine della guerra. Ci eravamo illusi che i confini non esistessero più, che fossero un residuato bellico destinato a scomparire, quando in realtà hanno continuato a esistere, sempre più controllati.
Lungo i confini continentali corrono centinaia di chilometri di acciaio e cemento: dalle barriere di Ceuta e Melilla in Spagna a quelle di Evros in Grecia, dai 175 km di filo spinato tra Ungheria e Serbia ai 146 km di barriera tra Bulgaria e Turchia. Uno studio della Reuters ha stabilito che, dalla caduta del muro di Berlino, i paesi europei hanno costruito o iniziato a costruire circa 1200 km di barriere anti-immigrazione. I punti di accesso con il resto del mondo sono muri ben protetti e militarizzati e la pressione migratoria, il terrorismo, l’ansia securitaria hanno riportato l’ingegneria politica delle barriere al centro del dibattito. Ma c’è una ragione per cui suona così sinistra questa incontrollabile voglia di muri, di escludere sistematicamente la parte del mondo che si ammassa ai nostri confini, come le migliaia di migranti sotto la neve a Belgrado, ed è che ci riporta dritti alla guerra e al suo apparato iconografico di filo spinato, linee del fronte e di uomini ammassati al di là. I paesi europei chiedono barriere per combattere i flussi migratori e per accreditarsi come custodi della sicurezza, e ci si è messo pure Trump con il suo muro al confine messicano, che si è idealmente saldato con i nazionalismi europei e con il desiderio di un controllo militarizzato degli accessi in Europa.
Abbiamo improvvisamente scoperto che la libertà di circolazione è per tutti, per noi che andiamo a Parigi o a Berlino, per gli studenti Erasmus e anche per i potenziali terroristi. I confini servono, ci dicono, di confini abbiamo bisogno perché circoscrivono la realtà e il concetto del limite è necessario per governare la realtà. E così ci siamo ritrovati nuovamente in camera nostra, con Roger Waters a ricordarci che i muri sono dappertutto, e non esiste un fuori che non sia anche un dentro: sotto la minaccia strumentale delle invasioni, molti stati europei non distinguono più tra confini esterni e confini interni, perché se consenti alla Bulgaria di innalzare una barriera contro i migranti, l’Austria si sentirà autorizzata a fare lo stesso e a proteggersi.
Non si può fingere che le ondate migratorie non siano insostenibili, si sente dire, e l’Europa deve difendersi, anche se non è chiaro da cosa, perché l’impressione è che l’unico pericolo che si corre con questa rincorsa in verticale è quello di mitridatizzare l’idea stessa di un’Europa fondata sulle libertà e sui diritti, costruita sulle macerie – macerie vere – della seconda guerra mondiale, e ritornare a pensare che sia normale e legittimo chiudersi dietro a chilometri di acciaio per impedire agli altri di entrare, separando il nostro mondo dalle entità nemiche. Ma il destino dei muri è sempre stato quello di crollare, essere aggirati o finire sepolti sotto diversi strati di civiltà perdute. Ci resterà comunque il dubbio di essere stati inesorabilmente illusi, in questo nostro desiderio di abbattere i confini, da tante puntate di quei Giochi senza Frontiere che, non è un caso, nacquero da un’idea di Charles de Gaulle.