Cara Left Wing,
ma secondo te che libri legge Donald Trump? Perché leggerà qualcosa, no (oltre ai tweet, voglio dire)? Me lo chiedevo qualche giorno fa, leggendo l’intervista che Michiko Kakutani (la boss dei critici letterari del New York Times) ha fatto a Obama su cosa sono i libri per lui. È una bella intervista, parla dei libri che ha consigliato a sua figlia, della sua passione per la scrittura, del tempo tiranno. Niente di straordinario, se vuoi. Però leggi questo passaggio (la traduzione è mia, accontentati): «La maggior parte delle mie letture quotidiane erano briefing e memo e proposte. E così, facendo lavorare tutto il tempo la parte analitica del cervello, a volte mi dimenticavo non solo della poeticità della narrativa, ma anche della sua profondità. La narrativa mi serviva per ricordare le verità che stanno sotto la superficie di ciò che discutiamo tutti i giorni ed era un modo per vedere e ascoltare le voci, le moltitudini di questo paese».
Anche il corsivo è mio. Senti: non è fantastico? Usare le opere di fantasia per ricordarsi di com’è la realtà. Sembra una contraddizione, e invece. Invece prima di tutto dice, senza vittimismo, che chi sta al potere – al livello più alto del potere – è lontano dalla gente che governa; nulla di nuovo sotto il sole, eh: lo scriveva Senofonte nello Ierone, ha fatto altrettanto Marquez nell’Autunno del patriarca, giusto per fare un po’ di name dropping. Potrebbe essere diversamente? Siamo seri: no. Se stai alla Casa Bianca non puoi stare nel playground della 140ª di Harlem; ma devi (dovresti) trovare il modo di sapere chi sono quelli che ci vanno a giocare o ci portano i bambini per farli bagnare sotto le fontane nella calura di agosto. E un libro può servire anche a quello.
Dice anche che chi sta al potere – al livello più alto del potere – è un po’ solo. Proprio perché devi occuparti di cose che assomigliano ai massimi sistemi, e perché fai una vita un po’ così, tipo West Wing: briefing, memo, proposte, day in and day out. E non è che sei meno solo perché una volta ogni tanto imponi alle tue guardie del corpo di scortarti da Kentucky Fried Chicken. E qui mi sono ricordato di un’altra intervista, che non riesco a ritrovare ma tu fidati. David Foster Wallace. Uno che diceva «La letteratura si occupa di cosa vuol dire essere un cazzo di essere umano» (scusa il francese: ma dopo Zavattini abbiamo sdoganato, no?). Uno che, appunto in un’intervista, disse che la letteratura, i libri, erano un antidoto contro la solitudine. A me quella frase si è piantata in testa come un chiodo, non solo perché è perfetta come praticamente tutto quello che ha scritto DFW, ma perché è vera. Per me, per il collega con cui parlo alla macchina del caffè, per Obama. Anche per Obama, sì: un libro è un antidoto contro la solitudine, ti porta dentro le vite degli altri, te le racconta, te le fa immaginare e capire e invidiare e tutto il resto, ti ricorda che non ci sei solo tu al mondo. Se sei al potere – al massimo grado del potere – mi sa che questa è una cosa che ti fa bene, e che ti fa fare meglio il tuo lavoro. Chissà che libri legge Trump.