Ieri sera è stato mandato in onda un sms del mio segretario di partito, Matteo Renzi, che recitava: «Per me votare nel 2017 o nel 2018 è lo stesso. L’unica cosa è evitare che scattino i vitalizi perché sarebbe molto ingiusto verso i cittadini. Sarebbe assurdo». Ovviamente ha ragione il segretario: sarebbe assurdo. Infatti i vitalizi sono stati completamente aboliti nel 2012 e da allora i parlamentari hanno una pensione contributiva che scatta a 65 anni.
Premesso che a mio parere il voto del 4 dicembre ha sancito la fine di questa legislatura, sentire alludere al fatto che ad esempio io, a 32 anni, non voglia andare a votare perché forse tra 33 anni avrò 900 euro lordi di pensione, prima che assurdo, lo trovo offensivo. Qui però ci troviamo davanti a un problema un tantino più ampio: l’atteggiamento che non solo il Pd, ma tutto il centrosinistra, ha sempre tenuto nei confronti dei famigerati «costi della politica». Per stare solo alla cronaca degli ultimi anni: abbiamo iniziato nel 2012 dimezzando il rimborso elettorale ai partiti; abbiamo continuato con gli otto punti in cui, per ottenere l’appoggio dei cinquestelle a un governo Bersani, proponevamo «l’abolizione del finanziamento pubblico» (e lo chiamavamo pure «governo di cambiamento»), siamo andati avanti con il decreto del governo Letta che la attuava (l’abolizione) e abbiamo concluso con il governo Renzi che la approvava. Su tante altre cose abbiamo fatto più che tutte le altre forze politiche messe insieme: abolizione dei rimborsi per i consiglieri provinciali, abolizione dei vitalizi, taglio ai rimborsi dei gruppi consiliari in varie regioni.
Il bello è che queste politiche, invece che ridare credito alle istituzioni, le hanno indebolite. Nonostante tutto quello che è stato fatto, la stragrande maggioranza degli italiani è convinta che i parlamentari girino in auto blu, abbiano la scorta e abbiano il vitalizio, che i partiti ricevano il finanziamento pubblico, che i sindaci navighino nell’oro e a volte persino che pure loro abbiano i vitalizi; mentre paradossalmente i nostri circoli e le nostre sedi chiudono perché non hanno più soldi, e sempre meno persone possono permettersi di fare politica, in un circolo vizioso che favorisce solo i mediocri e i ricchi. Insomma, esattamente il contrario di ciò che avremmo voluto succedesse.
Chiariamoci: la polemica sui «costi della politica» non è nata per caso. I tanti scandali e casi di corruzione – o la gestione assurda del finanziamento, anche nel Pd, per cui ai circoli non arrivava un euro – hanno creato il terreno fertile per la grande campagna di stampa e di opinione contro i «costi della kasta» che ha avuto in Rizzo e Stella prima, e in Dibba e Di Maio poi, i suoi paladini. Ma è pericoloso assecondare questi sentimenti. Come Pd, lo abbiamo fatto anche durante la campagna referendaria del 4 dicembre. E il risultato non è stato quello che speravamo.
Abbiamo sbagliato la risposta: se esistono i ladri e gli sprechi la soluzione non può essere abolire i soldi, deve essere arrestare i ladri e vigilare su come i soldi vengono spesi. Noi dovremmo spiegare perché la politica – o meglio: la democrazia – è un bene che viene prima di ogni divisione e polemica di parte. Lo stesso Sergio Rizzo ora ci spiega in un nuovo libro che senza una classe dirigente non si va avanti. Giustissimo. Per fare una classe dirigente c’è bisogno di un partito, di una comunità, di tempo e di soldi.
La democrazia non è un costo. È un investimento.