L’inquisizione permanente

L’inquisitore avviava la sua indagine sul sospetto, muovendo dal presupposto che l’inquisito è colpevole e deve confessare le proprie colpe. La presunzione di colpevolezza fu una delle virtù cardinali su cui si costruì l’impalcatura dell’arbitrio assoluto, in un processo in cui era l’inquisito a doversi dimostrare innocente e non l’inquisitore a provare la sua colpa. Le indagini erano senza contraddittorio, e il giudice decideva su prove raccolte in segreto. L’imputato era un oggetto inanimato. La logica inquisitoria è sempre stata funzionale allo stato autoritario e l’introduzione della presunzione di non colpevolezza nella Costituzione fu uno degli atti di rottura con il regime fascista. Ecco perché, quando sento Piercamillo Davigo dire cose come «il fatto che un imputato venga assolto non significa che sia innocente» o che «non esistono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti», controllo sempre che non ci abbiano caricati su una De Lorean e riportati indietro di ottant’anni.

Davigo è un magistrato autorevole e rigoroso che racconta una visione della giustizia in perfetta sintonia con il sentimento popolare, ma profondamente sbagliata. La giustizia di Davigo è apparentemente una giustizia del buonsenso e dell’efficienza, che presuppone però una società irredimibile, in cui tutti dovrebbero costituirsi alle autorità una volta diventati maggiorenni. Ed è un modello di giustizia che si scontra con principi costituzionali fondamentali. La corruzione dilaga perché il processo non funziona, lamenta Davigo, e ripete spesso che solo in Italia le dichiarazioni rese nel corso delle indagini sono ignote al giudice, mostrando la sua nostalgia per un sistema inquisitorio in cui le dichiarazioni raccolte senza contraddittorio nelle camere di sicurezza delle Questure erano una prova; ma accade in tutti i sistemi di tipo accusatorio di molti civilissimi paesi che gli atti di indagine non siano prove, perché le prove si formano davanti a un giudice nel contraddittorio delle parti. Si chiama giusto processo (due process of law, procédure equitable, faires Verfahren, scegliete voi il sistema processuale che preferite) e, anche questo, è un principio costituzionale.

«La realtà parlava forte e villana e mentiva ogni cosa come solo la realtà sa mentire», scriveva Gadda nella Passeggiata autunnale. Nel nostro sistema processuale è un giudice terzo ad accertare la realtà delle indagini e il rispetto di leggi e diritti; senza il sistema accusatorio, oggi probabilmente non sapremmo nulla di quanto accaduto a Stefano Cucchi e non conosceremmo i nomi dei responsabili di Bolzaneto e della Diaz.

Modello inquisitorio e presunzione di colpevolezza, quindi. L’imputato di cui parla Davigo è sempre il colpevole che riesce a sfuggire, o il corrotto incastrato da un documento o un’intercettazione, una semplificazione perfetta per la televisione, ma che rischia di diffondere una visione distorta delle indagini e dei processi. Non si tratta più di un confronto tra garantisti e giustizialisti, e nemmeno di una rievocazione del 1992, ma di qualcosa di più delicato: il modello di giustizia auspicato da Davigo è perfettamente funzionale all’idea che si possano comprimere diritti e garanzie per un’esigenza superiore, che si chiami sicurezza o moralità pubblica, in nome di un finalismo improprio che affida alla giustizia penale il compito di risolvere ogni frattura sociale. Ma è una giustizia completamente sbilanciata, che confonde legalità e repressione, secondo un’estetica estremamente popolare, di cui si nutre l’antipolitica che la fiancheggia.

Davigo spesso cade in contraddizione. Di fronte ai 648 milioni pagati dallo Stato per ingiusta detenzione tra il 1992 e il 2016 il suo ragionamento è curioso: i giudici sbagliano perché non sono presenti al momento del reato. Se gli investigatori gli raccontano delle bugie e lo ingannano non è un errore del giudice. Sarebbero gli stessi investigatori a cui vorrebbe affidare la formazione delle prove su cui giudicare.

La fase storica che attraversiamo è complicata, sta riemergendo quello che Calamandrei chiamava «freddo spirito inquisitorio e poliziesco del fascismo, per il quale era capovolto il principio della presunzione d’innocenza» e oltre a essere un paese senza memoria siamo un paese privo di una cultura dei diritti (come da Beccaria siamo finiti così è un mistero). I diritti sono infatti i primi a saltare, in nome dell’efficienza e di forme di legalità distorte, quando si confondono poteri che nelle società democratiche andrebbero tenuti separati.