Per ragioni che spero risultino immediatamente comprensibili, quando si parla di legge elettorale a me vengono sempre in mente i borghi putridi. Sarà perché al liceo un po’ di storia (non molta) l’ho studiata, sarà perché in quegli anni – negli anni in cui studiavo al liceo – in Italia quasi non si parlava di leggi elettorali, sarà infine perché in Inghilterra hanno cominciato prima di noi, a cimentarsi col voto, sta di fatto che a me viene sempre in mente la storica battaglia per l’eliminazione dei borghi putridi (e i loro cugini, i cosiddetti borghi tascabili).
Inghilterra, anno del Signore 1832. Al governo c’è Lord Charles Grey, con il quale il partito whig ritorna alla guida del Paese dopo un lungo periodo di dominio dei tory. Come me la raccontavo al liceo (e come vorrei raccontarmela ancora oggi), i whig erano i buoni e i tory i cattivi. E questo Charles Grey lo era tanto che un anno dopo abolì la schiavitù in tutto l’impero britannico. Ma, prima, abolì i borghi putridi. Cioè quei collegi elettorali che assicuravano alla vecchia aristocrazia terriera il controllo della Camera dei Comuni. Ormai spopolati, eleggevano infatti più parlamentari di città popolose come Londra, dove la borghesia liberale aveva ovviamente la maggioranza dei consensi. Fu una battaglia campale. Con tanto di disordini per le strade, proteste e crisi di governo. La legge fu presentata per ben tre volte, e passò solo dopo che il re si convinse a concedere nuovi titoli nobiliari a uomini con simpatie liberali, per superare il veto dei lord conservatori nella Camera Alta. Alla fine non ce ne fu bisogno, ma la Corona era stata lì lì per sfornare tanti nuovi baronetti.
Quella che fu sfornata, comunque, era una nuova legge elettorale. Nuovi collegi e un suffragio più ampio (di poco, ma più ampio). I partiti politici inglesi cambiarono rapidamente i loro connotati, in conseguenza della riforma. Ora, la domanda che vorrei farmi è se una morale da trarre da tutta questa storia c’è (e, se sì, quale). Per fortuna conservo ancora il libro di storia del liceo, così ho potuto riaprirlo per dare un veloce ripasso a fatti e circostanze (c’è Wikipedia, d’accordo, ma non devo spiegare a voi la differenza fra un buon manuale di storia e Wikipedia).
Ebbene, il paragrafo dedicato alla «trasformazione del sistema politico inglese» viene dopo, nell’ordine: «la formazione del proletariato industriale», «le prime rivolte contro le macchine», «la condizione operaia», «le prime leggi sociali», «la regolamentazione del mercato del lavoro». Tutti questi paragrafi stanno dentro la sezione «conflitti sociali e mutamenti politici nella società inglese».
Non vorrei adesso entrare troppo nel merito di così lontane vicende, ma io una morale comincio a vederla. E cioè che se la resistenza dei Lord fu piegata, e se il re si convinse e richiamò Lord Grey al governo per far passare la riforma, fu certo per la grande agitazione popolare, per la pressione dell’opinione pubblica e per l’obiettiva obsolescenza del sistema vigente, ma fu anche per tutte quelle cose che si trovano nei paragrafi precedenti: le conseguenze della rivoluzione industriale, una nuova demografia, gli scioperi e le proteste della classe operaia, e così via. Mettiamoci anche, per dare il quadro internazionale, la rivoluzione di luglio in Francia, che una spinta ai whig di sicuro la diede, e abbiamo il senso complessivo di un cambiamento che il Reform Act non creò ex nihilo, ma accompagnò, coronò, o forse agevolò, ma in ogni caso non produsse motu proprio.
Morale: forse non si può chiedere al cambiamento istituzionale, come alla riforma elettorale, più di quanto possa dare. Questo non significa che non ve ne sia necessità, ma che il break avviene quando maturano condizioni più generali, quando prende significato in relazione a tutto ciò che si muove nella società, e non come una sorta di variabile indipendente. Si veda, infatti: nel 1832 ci fu l’eliminazione dei borghi putridi, ma un anno prima c’era stata la prima legge di limitazione dell’orario di lavoro dei minori, e insomma l’inizio di una legislazione sociale (solo l’inizio, va da sé). Se qualcosa non ha funzionato, temo allora che abbia ragione Cundari: quel che non è andato per il verso giusto sta meno nel disegno di riforma costituzionale (di cui però confesso di non riuscire tuttora a pensare che qualcuno potesse seriamente temere conseguenze di tipo autoritario per il nostro Paese) e più nelle leggi che l’hanno (o non l’hanno) preceduto. Se questa è la morale, è dunque da quelle altre leggi che conviene ripartire. Senza rinnegare l’obiettivo del grande avanzamento costituzionale, ma senza illudersi che possa surrogare tutto il resto.
Così, se dopo la Brexit, dopo Trump, dopo il 4 dicembre sempre più il discrimine passa, come scrive Sarica, tra chi vuole un mondo aperto e chi vuole un mondo chiuso, bisogna pur spiegare perché un mondo aperto dà di più, e cosa dà, e anche perché un mondo chiuso dà di meno, e cosa toglie. Bisogna spiegare con ottimi argomenti per chi è aperto il mondo, dal momento che i fautori del mondo chiuso riescono a dire con grande forza contro chi lo chiudono. L’apertura per l’apertura, l’indecostruibile apertura all’avvenire, è una cosa quasi-trascendentale che nessuno capisce: infatti è un filosofema di Jacques Derrida. Serissimo e, per mio conto, anche molto valido. Come ispirazione ideale, però. Non come programma politico.
Infine, quasi dimenticavo di dire. Il manuale che ho compulsato porta il titolo: «L’operazione storica». A sedici, diciassette anni non è che si faccia molta attenzione al titolo, o alle premesse degli autori. Dopo però si capisce un po’ di più. Che per esempio operazione storica vuol dire, certo, che i documenti non parlano da soli e vanno sollecitati dall’interrogazione dello storico, ma forse pure che l’operazione storica è un’operazione politica. E questo non va detto per mettere in dubbio l’obiettività del lavoro storico, ma per dare se mai peso storico al lavoro politico. Ecco un’altra cosa che forse il Pd dovrebbe provare a fare, perché poche cose procurano legittimazione politica, ma una è di sicuro la capacità di leggere i cambiamenti in atto secondo il verso lungo della storia.