Il problema politico di Matteo Renzi si può riassumere nei termini di una vecchia storiella napoletana, che (in traduzione) dice più o meno così. Esasperato da un pero che non dà mai frutto, un contadino decide di abbatterlo, per poi cedere la legna a uno scultore, che ne fa una statuetta di Sant’Antonio per la parrocchia. Ma quando la domenica, in chiesa, il contadino vede un compaesano che si rivolge alla statuetta per chiedere una grazia, sbotta: «Quand’era pero non faceva le pere, ora che è santo può fare i miracoli?».
Da segretario del Pd e capo del governo, trionfatore delle primarie prima e delle europee poi, Renzi aveva non solo il dovere, ma anche l’occasione, e tutte le condizioni più favorevoli, per ricostruire un partito e un gruppo dirigente rinnovato, autorevole e autonomo – e tanto più autorevole, quanto più autonomo – capace di stabilire un rapporto nuovo con la società italiana, fuori dai vecchi steccati e dalle eterne dispute interne. Non c’è riuscito allora, quando aveva tutte le carte migliori in mano. Potrà farcela adesso, quando molte di quelle carte, e forse lo stesso destino del Pd, sembrano non essere più nelle sue mani?
Questa è la domanda, carica di tutto lo scetticismo, la diffidenza e il fatalismo di un’antica cultura contadina, che accomuna oggi autorevoli editorialisti e star dei talk show, antichi avversari e antirenziani dell’ultimissima ora, intellettuali dei caffè e tuttologi del web. E che soprattutto accomuna la stretta attualità a quella vecchia storiella. Passando dal napoletano al sanscrito, e da Sant’Antonio a Sanremo, potremmo dire che è un problema di karma. Renzi’s karma.
Qualunque cosa decida di fare, infatti, l’ex capo del governo – fare le primarie di coalizione a maggio da leader del Pd, fare il congresso a marzo da segretario dimissionario, fare la guerra mondiale a tutti per le elezioni a giugno, fare pippa – è evidente che nella nuova «fase zen», annunciata dallo stesso Renzi all’indomani della sconfitta referendaria, avrà bisogno di molte lezioni di Nirvana per resistere al fuoco incrociato di vecchi amici e nuovi nemici, dai selfisti anonimi della stazione Leopolda alle intelligenze démodé della fondazione Italianieuropei.
Anche il più irriducibile dei suoi antipatizzanti dovrebbe però riconoscere che la sintesi renziana del dibattito post-referendario interno al Pd, questa volta sì, corrisponde alla pura e semplice verità dei fatti (sarà per questo che l’ha smentita subito?). Chiede le elezioni e gli dicono che ci vuole prima il confronto, propone le primarie e gli dicono che serve il congresso, dice di fare il congresso e gli rispondono che non serve una conta. Allora le primarie? No alla gazebata. Allora il voto? Se non facciamo prima il congresso, andiamo alle carte bollate. E perché non lo facciamo subito? Perché non serve una conta. E così via all’infinito.
Il problema è che questo non è un videogioco. Più va avanti un simile spettacolo, più aumentano le probabilità che al termine della battaglia interna i contendenti si accorgano che sugli spalti, ad appassionarsi al loro scontro, non è rimasto nessuno. È dal 5 dicembre che assistiamo al balletto delle date, delle premesse e delle precondizioni necessarie al chiarimento interno che, a chiacchiere, tutti invocano. Questo tempo non è sabbia, ma è la vita. Che passa.
Con quello che sta succedendo nel mondo, con lo spettacolo offerto in Italia dai cinquestelle e dai loro tardivi imitatori della destra neotrumpiana, c’è poco da discutere. Chiunque abbia davvero a cuore le sorti dell’Italia oggi dovrebbe pregare per il Pd. In confronto agli altri, per quanto assurdo e complesso ci sembri, è un partito perfetto.
E invece il rischio dell’esplosione e della polverizzazione, più che della scissione, non è mai stato tanto concreto. La verità è che la cura delle primarie, con la formazione di cordate verticali di acritici sostenitori dell’uno e dell’altro candidato, ha scavato in profondità nella cultura e nel costume non solo dei dirigenti, ma perfino dei militanti. Da tempo il dibattito interno è ridotto a uno scontro senza regole e senza principi, sempre uguale a se stesso: Gufi & Rosiconi contro Venduti & Traditori. È anche per questo che ogni discussione nel Pd, da almeno tre anni, si rivela subito pretestuosa e ridicola. Risposte facili, dilemmi inutili. Proprio come questo assurdo dibattito su tempi e modi del necessario chiarimento interno, che non potrebbe essere più opaco.
Per saltare fuori da questo circolo vizioso serviranno anzitutto il coraggio e la capacità di uscire dalle strade battute finora, da parte di Renzi per primo. Serviranno, da parte di tutte le correnti e di tutti i dirigenti con la testa sulle spalle, la capacità di rimescolare le carte e di cambiare gioco. Meno grancassa e meno tromboni, del resto poco adatti alla nuova «fase zen». Meno mazzieri ansiosi di buttarsi nella mischia a testa bassa e più arcieri capaci di alzare lo sguardo e colpire il bersaglio al momento giusto. Ne saranno capaci? Sarà capace, Renzi per primo, di riannodare i fili della sua battaglia per il rinnovamento e l’apertura del Pd con la tradizione e anche l’organizzazione di una forza politica che non può trasformarsi nel comitato elettorale di nessuno, se non vuole tornare al 25 per cento? Difficile dirlo. Certo non potrà farlo da solo. Storie dal gran finale sperasi.
E comunque vada panta rei.