Vincere le battaglie e perdere le guerre

Cara Left Wing,
mi sa che tu sei di buoni studi: latino, greco, Seneca, Omero. Io no, istituto tecnico prima e Bocconi poi – cioè, non che Bocconi non sia buona, anzi, ma siccome ho i capelli bianchi sono cresciuto con l’idea che gli studi buoni fossero quelli classici. Comunque, dato questo background, quando mi capita di avere abbastanza coraggio da affrontare uno di questi colossi dell’antichità mi ritrovo sempre con la mandibola cascante. Un po’ per l’ammirazione per come scrivevano, un po’ per lo stupore di realizzare che duemilacinquecento anni sono serviti per permetterci di perdere il sonno dietro alle spunte blu di Whatsapp ma per il resto non ci hanno resi molto diversi dai nostri avi che veleggiavano nel Mediterraneo (il che forse ci dovrebbe far ragionare su cosa intendiamo per progresso, ma questa ce la teniamo per una sera dopo la terza pinta, se sei d’accordo).

Fatto sta che per un caso mi sono trovato a fare contemporaneamente una cosa abituale e una un po’ meno. Quella abituale è condizionata dall’inesauribile vena di masochismo che contraddistingue l’elettore storico di sinistra e consiste nel leggere su base quotidiana una dichiarazione di Renzi, una presa di posizione di Speranza, un (severo) monito di Napolitano, una riflessione di Cuperlo – e qui mi fermo, se non altro per tentare di difendere quel briciolo di dignità personale residua che mi ritrovo. Come diceva mia nonna ben prima di Paolo Sorrentino: «Hanno tutti ragione». Hanno tutti il ditino alzato, Renzi nel dare ordini a Padoan, Speranza nel minacciare Renzi, Napolitano nel dare lezioni di coscienziosa prudenza a tutti, Cuperlo – beh, lui il ditino lo alza però di solito tiene una falange piegata, ma comunque siamo lì. Giorno dopo giorno, day in and day out come dicono gli americani, giorno dopo giorno hanno tutti ragione perché si pensano tutti i più forti e/o i più intelligenti.

La cosa un po’ meno abituale che ho fatto è stata invece leggere, e poi rileggere, un pezzo che mi hanno detto essere piuttosto famoso; io non ne sapevo nulla, vedi a non aver fatto il liceo, ma ammetto che se è come dicono la cosa è ben motivata. Il pezzo è il Dialogo tra Ateniesi e Melii, immagino che tu lo conosca. Lo ha scritto Tucidide intorno al 400 avanti Cristo. La storia è semplice, ci sono quelli forti – gli Ateniesi – da una parte, e quelli deboli – i Melii – dall’altra. I primi assediano i secondi perché questi hanno deciso di fare la Svizzera quando la neutralità non era contemplata dalle regole del gioco; ma prima di occupare l’isola sulla quale quegli altri vivono da settecento anni mandano i loro ambasciatori a porre le condizioni della resa. Le due delegazioni stanno lì, una di fronte all’altra, gli Ateniesi che dicono «arrendetevi e nessuno si farà male» e i Melii che rispondono «sentite, saremo pure dei microbi ma abbiamo la nostra dignità, quindi quella è la porta, prendete e tornatevene a casa».

Scusa se ti annoio con cose con le quali i tuoi professori ti hanno tediato quando avevi i capelli lunghi, ma concedimi l’entusiasmo del neofita: è un dialogo fantastico per le cose che dicono e per come le dicono. Gli Ateniesi soprattutto: i padri della democrazia, mettono in fila una serie di frasi che Trump non riuscirebbe a formulare nemmeno sotto acido (Bannon forse sì, però). Ma quegli altri, i Melii, niente. De coccio proprio. Alla fine entrambe le parti decidono che hanno perso fin troppo tempo, e quindi sciolgono l’incontro. Ma gli Ateniesi, che non erano soltanto forti ma anche perfidi, mentre sono sulla porta pronti a risalire sulle loro triremi e lanciare l’attacco, si girano un’ultima volta, lentamente, guardano gli ambasciatori Melii negli occhi e gli piazzano lì questa frase fulminante: «Coloro i quali non cedono ai loro pari, compiacciono i più forti, e mostrano equilibrio con i più deboli, quelli hanno il miglior successo. Non perdete di vista questo punto anche quando noi ci saremo allontanati: mettetevi bene in testa che è della vostra patria che state decidendo: dell’unica patria che avete; e che tutto dipenderà da un’unica deliberazione, fortunata o rovinosa che sia».

Ora, chi siano i nostri moderni Ateniesi e Melii io onestamente non saprei dirlo: se devo essere sincero mi pare che manchi, per così dire, un po’ di spessore agli interpreti. Però mi pare che tutti, nessuno escluso, girino come criceti intorno a quella frase, soprattutto al pezzo che dice «coloro i quali non cedono ai loro pari, compiacciono i più forti, e mostrano equilibrio con i più deboli, quelli hanno il miglior successo». Poi arriviamo noi che gli vorremmo dare un colpetto sulla spalla e ricordargli che è della nostra patria che stanno decidendo, ma questa è un’altra storia.

Post Scriptum: I Melii non risposero, gli Ateniesi se ne tornarono sulle loro navi e poi attaccarono l’isola di Melo. Le cose furono meno semplici di quanto si aspettavano, gli ci volle un annetto per fare tabula rasa, uccidere tutti gli uomini e deportare donne e bambini, ma alla fine ottennero quel che volevano. Poi passarono ancora una quindicina d’anni e Atene, che aveva vinto la battaglia di Melo, perse la guerra contro Sparta. Immagino che ci sia una morale in tutto questo, ma quale sia non lo so. D’altra parte mica ho fatto il liceo.

Caro Pilu, temiamo che al liceo classico più d’un nostro compagno di classe, e forse anche qualche professore, le avrebbe risposto che la morale di questa storia è che all’ateniese, come al Cavaliere Nero, è meglio non urtare i nervi.